Uno studio italiano dà speranza nella cura dell’Alzheimer, la più comune forma di demenza in età avanzata nell’uomo, tuttora incurabile. Realizzata dai ricercatori della Fondazione IRCCS Istituto Neurologico Carlo Besta, in collaborazione con i colleghi dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri, la ricerca è stata pubblicata sulla rivista Molecular Psychiatry. I risultati di questa sperimentazione clinica di fase III sono stati pubblicato sul Journal dell’American Medical Association.
Il farmaco è un anticorpo monoclonale che aiuta a rimuovere la beta-amiloide, la proteina alla base delle placche caratteristiche della malattia. La sperimentazione, denominata “Trailblazer-Alz 2”, ha coinvolto più di 1.700 pazienti con Alzheimer in fase iniziale, che hanno ricevuto il farmaco o un placebo. Dopo circa un anno e mezzo, nei malati trattati con donanemab la malattia era progredita più lentamente: di circa il 35% nei pazienti con forme più precoci e del 22,3% se si consideravano tutti i pazienti.
Questi dati si traducono in un rallentamento di 4,36 mesi. Inoltre, in circa la metà dei pazienti trattati con il nuovo farmaco la malattia non ha mostrato peggioramenti clinici per almeno un anno, rispetto al 29% dei pazienti che avevano ricevuto il placebo. I risultati della sperimentazione, in parte già anticipati a maggio, arrivano a pochi giorni dalla piena approvazione da parte dell’Fda di lecanemab, farmaco con un meccanismo di azione simile a donanemab. Somministrata per via intranasale, la molecola scoperta dai ricercatori inibisce il deposito e gli effetti tossici di una delle due proteine che causano l’Alzheimer. Negli approcci terapeutici messi appunto finora, non si era ancora riuscito ad identificare un composto capace di contrastare la malattia, né di contenerla. Decenni di studi hanno dimostrato, però, che impedire, o rallentare, la formazione di aggregati della proteina beta-amiloide e la proteina tau – fondamentali per la nascita della malattia -, non sono sufficienti per sconfiggere l’Alzheimer. Al fine di eliminarla, è importante inibire contemporaneamente gli effetti neurotossici delle due proteine. I ricercatori, grazie ad una scoperta antecedente, sono riusciti ad identificare una variante naturale della proteina beta amiloide, la quale protegge i soggetti portatori dallo sviluppo dalla malattia. Studiandola in un modello animale, il topo, per l’esattezza, i ricercatori sono riusciti successivamente a sintetizzare la molecola oggetto dello studio.
Le dichiarazioni dei ricercatori: “Gli esperimenti hanno dimostrato che la somministrazione per via intranasale del peptide, in una fase precoce della malattia, è efficace nel proteggere le sinapsi dagli effetti neurotossici della beta-amiloide oltre che nell’inibire la formazione di aggregati della stessa proteina, responsabili di gran parte dei danni cerebrali nell’Alzheimer, e nel rallentare il deposito della beta-amiloide sotto forma di placche nel cervello. Inoltre, il trattamento sembrerebbe non indurre eventi collaterali che derivano da un’anomala attivazione del sistema immunitario, riscontrati in altre potenziali terapie per l’Alzheimer. Questi effetti multipli costituiscono pertanto una combinazione apparentemente vincente nell’ostacolare lo sviluppo della malattia nei topi”, hanno commentato il dottor Fabrizio Tagliavini e il dottor Giuseppe Di Fede, neurologi del Besta, che hanno condotto lo studio. Mario Salmona, biochimico dell’istituto Mario Negri, ha infine aggiunto: “Gli ulteriori vantaggi di questa strategia riguardano i bassi costi di produzione del piccolo peptide, in confronto agli elevatissimi costi di altri approcci terapeutici potenziali per l’Alzheimer come gli anticorpi monoclonali, la semplicità e la scarsa invasività del trattamento per via intranasale, peraltro già utilizzato con successo per altre categorie di farmaci”.
Fonte: Sky TG 24