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“A Chiara” un film dal quale la Calabria ne esce ferita

“A Chiara” è un film drammatico, di Jonas Carpignano, che racconta la vita della giovane quindicenne Chiara Guerrasio, la Calabria ne esce un po’ ferita, un po’ denigrata, un po’gretta, un po’ come è, ma come vorremmo che non fosse. Nessun idillio, anche laddove si sarebbe potuta inserire una nota idilliaca.

 “A Chiara” è un film drammatico, di Jonas Carpignano, che racconta la vita della giovane quindicenne Chiara Guerrasio. Chiara è una ragazza che vive a Gioia Tauro, ed è la protagonista raccontata in quella fase della vita in cui gli adolescenti si pongono molte domande. Il film si apre con una scena in cui Chiara pratica attività sportiva in una palestra, correndo su un tapis roulant. La corsa è emblematica in quanto, a mio avviso, si corre quando si scappa da qualcosa così come si corre per lasciarsi indietro il passato.

Chiara non sa ancora, però, di essere figlia di un affiliato alla mafia e quando scopre questa cruda verità, la sua vita subisce una rapida e triste evoluzione.

Dopo la festa per il diciottesimo compleanno della sorella di Chiara, un incendio di natura dolosa distrugge la macchina del padre, il quale si dilegua e sparisce. Chiara comincerà così a porsi delle domande. Durante la festa di compleanno viene presentata tutta la famiglia di Chiara: padre, madre e le due sorelle, una maggiore e una minore di Chiara.

Ad essere all’oscuro della vita criminale del padre sono sia la sorella minore, che la stessa Chiara. La festa serve a far da cornice ad una realtà triste, alienante e alienata in cui la musica ha il sopravvento e ci impaurisce, portandoci in una dimensione quasi psichedelica: le voci, le luci e i suoni sono tutti lì a dimostrare una perdita del senso del reale.

Chiara, come dicevamo, comincia a porsi delle domande e a rivolgerle alla famiglia mentre questa tergiversa rispondendo che ci sono cose che è meglio non sapere.

Da non tralasciare è il rilievo che Carpignano dà alla comunità nomade presente a Gioia Tauro, già protagonista di un suo precedente film: “A ciambra”. Chiara lancia un petardo sfregiando il viso di una ragazza rom in risposta ad un altro petardo lanciato per errore verso di lei. I Rom non tardano a scusarsi, ma Chiara risponde a titolo di ritorsione provocando il ferimento al viso della giovane. L’episodio non rimane privo di conseguenze. Anzi, qualche giorno più tardi, la grave lesione riportata dalla Rom porterà la scuola ad intervenire tramite i servizi sociali. Questo episodio va letto come prodromo di una personalità deviata e incline all’atteggiamento mafioso acquisito in famiglia, oppure deve essere considerato un fatto fine a se stesso?

A prescindere dalla lettura che se ne voglia dare, il dato di fatto è il contributo dei servizi sociali che mostra uno Stato sociale presente che interviene per sanare situazioni di difficoltà notevole, proprio come quella di Chiara. I servizi sociali intervengono chiedendo l’allontanamento della ragazza dalla famiglia e la conseguente collocazione presso una famiglia affidataria marchigiana. Nonostante il tentativo di affido, la ragazza scappa e ritorna in Calabria. Qui, costringe il cugino a condurla dal padre perché lei vuole “sapere”, vuole “capire”. La verità emerge dal basso: il padre, infatti, si trova latitante in un bunker.

Chiara appura che il padre, seppur invischiato con la ‘ndrangheta, non ha mai ucciso nessuno, non si è mai macchiato di omicidio. La sua attività criminale è limitata al traffico di droga. E, il padre, si giustifica spiegando che la sua contiguità alla ‘ndrangheta è dettata da ragioni di sopravvivenza.

A questo punto, rientrata a casa attraverso i cunicoli del bunker, Chiara comincia a riflettere su quale sia la vita che le si prospetta…Tornerà volontariamente nelle Marche. Il film si chiude con la festa per il diciottesimo compleanno di Chiara in un ambiente che è messo in rilievo, in contrapposizione al compleanno delle scene iniziali della sorella di Chiara.

Se, dunque, correndo sul tapis roulant si corre, ma si rimane sempre allo stesso punto, la corsa finale nel campo di atletica comporta una proiezione verso il futuro e un lasciarsi alle spalle il passato.

Dal punto di vista giuridico, all’interno di nuclei familiari contigui a contesti mafiosi e in presenza di un’educazione fondata sulla trasgressione delle regole del vivere civile e sulla trasmissione di una cultura mafiosa, l’intervento statuale si esplica attraverso provvedimenti giurisdizionali che statuiscono sulla potestà genitoriale, combattendo così l’arruolamento di risorse umane e tutelando i minori appartenenti a queste famiglie. I figli sono le prime vittime dei sodalizi criminali che subiscono un grave pregiudizio al patrimonio morale, in un ambiente in cui prevale la sopraffazione, la violenza e il potere ad ogni costo.

I minori sono educati e abituati fin da piccoli a percepire lo Stato come un nemico repressivo, un mostro che arresta e condanna i genitori.

Lo Stato deve, dunque, intervenire a sostegno del corretto sviluppo psicofisico del minore, in un’ottica in cui il diritto penale rappresenta solo uno degli strumenti a cui ricorrere giacché all’intervento sanzionatorio va affiancato un intervento preventivo affidato alle strutture sociali.

In tale contesto si collocano i provvedimenti adottati dal Tribunale di Reggio Calabria che hanno disposto decadenza dalla responsabilità genitoriale e conseguente allontanamento dei o dai figli e il loro collocamento in territori lontani da quelli in cui sono cresciuti. L’obiettivo è consentire agli adolescenti di andare a vivere in contesti familiari e sociali diversi dal contesto mafioso.

I giudici minorili reggini hanno dato vita ad un nuovo filone giurisprudenziale. Il Codice civile prevede che il pm minorile possa chiedere la sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale e l’allontanamento dalla residenza familiare. La nuova giurisprudenza reggina ha applicato le norme in materia, articolo 330 e 333 del c.c. per garantire la tutela dei “figli di mafia”. I giudici sono partiti dal presupposto che il genitore che aderisce ai “dis valori della criminalità, rischi di impartire un’educazione alla trasgressione delle regole del vivere civile provocando così al minore grave pregiudizio e violando i suoi doveri genitoriali. Il giudice procederà ad una valutazione approfondita e globale che guardi non solo al rapporto genitori-figli ma anche al contesto ambientale in cui è inserito il nucleo familiare.

Il tutto in linea con l’articolo 30 della Costituzione che “E’ dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli… Nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti”.

Dal film ricaviamo un punto di osservazione della nostra realtà calabra poco tenero e comprensivo. L’idea che mi sono fatta, nonostante la bravura di Swamy Rotolo (la protagonista), è che la Calabria ne esce un po’ ferita, un po’ denigrata, un po’gretta, un po’ come è, ma come vorremmo che non fosse. Nessun idillio anche laddove si sarebbe potuta inserire una nota idilliaca. Una Chiara che si è sì salvata dal giogo della malavita, ma lo ha fatto lasciando la famiglia in balia di sé stessa. E la Calabria rimane sola a crogiolarsi, un po’ offesa dalle spalle che, nella scena finale, Chiara dà al pubblico.

Beatrice Macrì

 

 

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