Prestia e sua moglie morirono nel silenzio, assassinati, diceva la gente di Platì, da due giovani, nuove leve della ’ndrangheta. La paura in paese si tagliava col coltello, nessuno parlava, pochi per strada, intabarrati alla meglio per coprirsi dal freddo intenso. L’anno prima, il 27 marzo del 1985, era morto il sindaco in carica, Domenico De Maio, succeduto nella carica a Prestia. Lo ammazzarono a colpi di lupara e pistola, lungo la strada per Natile.
A Platì, il Municipio, era ospitato in un appartamento di Francesco Prestia, sindaco alla guida del paese per molto tempo. Comunista di 62 anni, era stato più volte sindaco e vice sindaco del paese fino al 1975. Aveva iniziato l’attività politica giovanissimo, nel dopo guerra, presentandosi nella lista di ispirazione popolare comunista guidata dal Maresciallo dei Carabinieri a riposo Giuseppe Delfino, inteso Massaru Peppe. Dopo le dimissioni di Delfino, Prestia assunse la carica di Sindaco reggendola fino al 1952, anno in cui la maggioranza fu conquistata dalla Democrazia Cristiana. Nel 1960, il P.C.I. ottenne nuovamente la maggioranza e Prestia ricoprì la carica di vicesindaco mentre quella di sindaco fu retta dall’ex Parlamentare Comunista Francesco Catanzariti, con il quale si alternò alla guida dell’Amministrazione comunale di Platì. Nel 1964, Prestia tornò sulla poltrona di primo cittadino sino al 1972. Dopo le elezioni cedette la carica ancora a Catanzariti, tornato nuovamente a guidare il Comune. Prestia abbandonò definitivamente la scena politica nel 1975, quando la sua lista fu sconfitta alle amministrative da quella della Democrazia Cristiana guidata da Domenico De Maio.
Prestia e sua moglie furono assassinati a bastonate l’11 febbraio 1986 con furore selvaggio. Il Sostituto Procuratore di Locri Carlo Macrì, quando a Platì vide la scena di quel duplice omicidio, affermò di essersi trovato di fronte ad una scena raccapricciante, un fatto selvaggio ed orribile mai visto.
Francesco Prestia e sua moglie con il cranio sfondato, in un lago di sangue, uccisi a colpi di spranga, in un paese vuoto. Nessuno aveva visto o sentito niente, neanche la figlia di 22 anni, che studiava al piano superiore, si era accorta di nulla. Prestia e sua moglie morirono nel silenzio, assassinati, diceva la gente di Platì, da due giovani, nuove leve della ’ndrangheta. La paura in paese si tagliava col coltello, nessuno parlava, pochi per strada, intabarrati alla meglio per coprirsi dal freddo intenso. La moglie, Domenica De Girolamo, direttrice dell’Ufficio postale in pensione da un mese, era stata insignita dal Presidente della Repubblica dell’onorificenza di Cavaliere del Lavoro. L’anno prima, era il 27 marzo del 1985, era morto il sindaco in carica, Domenico De Maio, succeduto nella carica a Prestia. Lo ammazzarono a colpi di lupara e pistola, lungo la strada per Natile, mentre in compagnia della figlia, alla guida della sua autovettura, faceva rientro a casa.
La popolazione sosteneva che Platì era un paese di cui tutti potevano dir male senza averlo mai conosciuto o visto. Platì era l’unico posto in Italia dove per pagare la bolletta dell’Enel bisognava compilare una distinta con i numeri di serie delle banconote. Nei campi non c’era acqua potabile, né corrente elettrica, che d’inverno mancava anche in paese. Non si vedeva il primo canale della TV, ma soltanto il secondo e per vedere le reti private avevano costruito, con soldi propri, un ripetitore. Per fare rifornimento di benzina bisognava arrivare fino a Bovalino, diciassette chilometri giù sino alla costa. Era Platì, anni Ottanta, dove non c’era un cinema, non c’era un campo sportivo, dove l’Anas considerava chiusa e impraticabile dal 1951 la Statale 112, che arrivava in paese e continuava a salire per raggiungere l’Aspromonte e, proseguendo, la costa Tirrenica.
Lo Stato era lì a due passi. La Stazione dei carabinieri era su una salita di cemento armato, accanto alla chiesa. Le finestre erano sprangate. La porta era rinforzata con una lamina d’acciaio. Il piantone apriva la porta lentamente con la pistola in pugno. Il piantone era di Palermo, 25 anni, in paese da due anni e mezzo. Era un ragazzo serio, ma triste. Non aveva mai scambiato una parola con un platiese, una sola parola. Se avesse voluto bere un caffè, fumare una sigaretta, non avrebbe potuto farsi notare al bar dove si sarebbe fatto vuoto e silenzio intorno. Qualche volta ci aveva provato ma, dopo pochi minuti, era scappato via. Così, stava in caserma o si avventurava per raggiungere Siderno. Quando aveva indossato l’uniforme pensava di rappresentare lo Stato, ma a Platì si trovava a rappresentare qualcosa che gli abitanti odiavano, si sentiva un nemico. A cucire e ricucire i rapporti con la popolazione ci pensava il comandante, Brigadiere Antonino Marino, che sarà ucciso in un vile attentato.
A Platì, chi non era con la mafia era un morto vivo perché isolato da tutti. Era inaudita la violenza mafiosa di tanti morti ammazzati, la gran parte rimasti impuniti. Molti in regolamento di conti mafiosi, ma tanti altri senza un vero perché, come l’assassinio dell’Appuntato di Pubblica Sicurezza De Maria e di suo zio, avvenuto il 24 luglio del 1980 dopo un diverbio fra automobilisti. Per quel duplice omicidio ci furono richieste di condanne all’ergastolo. Sbalordì la requisitoria che fece in quel processo il Pubblico Ministero Carlo Macrì: “Quell’omicidio insensato e gratuito, era motivato solo dalla necessità di dimostrare che a Platì nessuno poteva alzare la voce in un ambiente intriso di spavalderia e di barbarie dove la vita dell’uomo non merita alcun rispetto ed ogni occasione è buona per dimostrare col sangue il proprio essere uomo”. Un paese mai ripreso dall’alluvione del 1951, che aveva seminato morte, portandosi a valle perfino il cimitero, deteneva il record del tasso di disoccupazione. A Platì e nei dintorni furono liberate decine di vittime dell’Anonima sequestri. La madre di Cesare Casella s’incatenò in piazza. A Platì, il cadavere di un Vigile Urbano assassinato rimase per ore a terra perché nessuno voleva portar via il corpo. Sempre a Platì, la figlia del sindaco comunista Francesco Prestia si precipitò invano a invocare aiuto nell’unico bar attiguo dopo aver scoperto che mamma e papà erano stati uccisi nella loro tabaccheria. Tutto vero. Il Comune era strapieno di debiti. La ‘ndrangheta appariva come l’unica risorsa in un paese che per anni aveva visto perfino la parrocchia smettere di tenere in ordine i registri dei nati e dei morti; che aveva perduto via via tutte le falegnamerie, le sartorie, le mercerie, tutti i barbieri e i bar, smottando progressivamente verso il degrado.
“Venite a Platì, non è il paese di mafia di cui si parla”, diceva Domenico Natale De Maio, 46 anni, dal 1976 Sindaco del centro aspromontano. Analoghe considerazioni fece davanti ai Giudici del Tribunale di Locri nel processo contro le cosche. Venne ucciso con ferocia, a colpi di pistola e lupara da sicari della ‘ndrangheta. Aveva tentato la fuga, ma fu raggiunto ed eliminato. L’esecuzione era avvenuta intorno alle 13. 00, a pochi chilometri da Platì, nei pressi di Natile. De Maio, che lavorava all’Ufficio Imposte Dirette di Locri, con la propria Ritmo diesel stava rientrando al paese assieme alla figlia Antonella di 17 anni, studentessa al quarto anno del Magistrale di Locri. Nei pressi di Natile, sulla Statale che collega Bovalino all’Aspromonte, una Fiat 125 rossa affiancava la Ritmo di De Maio e uno dei killer sparò alcuni colpi di pistola, che non raggiungevano il bersaglio. Una corsa ancora di poche centinaia di metri e l’auto degli assassini bloccava la Ritmo. De Maio a piedi cercava scampo buttandosi in una scarpata sottostante ma i suoi giustizieri lo raggiunsero e lo colpirono ripetutamente alla testa. “Ero in macchina”, ripeteva la figlia Antonella, ancora con il terrore negli occhi, “avevo sentito gli spari, ma non pensavo che lo avessero ucciso”. Era stata la ragazza, soccorsa da un automobilista di passaggio, a portare la notizia in paese. La gente diceva che era una brava persona, sempre disponibile. Di famiglia modesta, era stato segretario della locale sezione della D.C. e collaboratore dell’assessore provinciale Prof. Antonio Delfino, divenuto suo vicesindaco. “Era un amministratore saggio”, disse Delfino, ricordando le ultime battaglie politiche dopo l’ennesima alluvione e l’ennesima frana che sembravano volersi portare via l’intero abitato. Il Sindaco, anni addietro, era stato coinvolto nell’inchiesta per la feroce esecuzione dell’Appuntato di Pubblica Sicurezza De Maria e di suo zio. Egli, per l’accusa, assieme ad altri, in montagna, aveva assistito all’omicidio portato a termine con un rituale raccapricciante. l’Appuntato venne fatto inginocchiare davanti a tante persone e l’omicida gli sparò alla testa. Condannato in primo grado per falsa testimonianza, De Maio venne assolto in Appello.
Cosimo Sframeli