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venerdì, Novembre 22, 2024
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Cecilia Faragò, l’ultima fattucchiera calabrese  

Proprio dalla nostra Regione si avviò quel complicato percorso, che portò all’abolizione del reato di stregoneria. Per capire come si è arrivato a tutto questo, occorre ripercorrere la storia di Cecilia Faragò, ultima donna della storia accusata di essere una strega.

La Calabria è stata protagonista di un evento storico di grande rilevanza, in quanto proprio dalla nostra Regione si avviò quel complicato percorso che portò all’abolizione del reato di stregoneria. Per capire come si è arrivato a tutto questo, occorre ripercorrere la storia di Cecilia Faragò, ultima donna della storia accusata di essere una strega. Tutto è avvenuto nel secolo della ragione, ovvero nel 1700, ma in Calabria il pregiudizio e la superstizione erano restii a morire. La società dell’epoca era costituita soprattutto da braccianti e contadini, che avevano una vita di stenti. Prevaleva povertà, sottomissione delle donne, diffuso sfruttamento del lavoro minorile. Il tempo scorreva tranquillo e noioso, con due soli pilastri: la famiglia e la religione. In questo ambiente nacque nel 1712, a Zagarise in provincia di Catanzaro, Cecilia Faragò. Giovanissima, all’età di venti anni, sposò Lorenzo Gareri e con lui si trasferì nella vicina Soveria Simeri. La famiglia Gareri conduceva una vita abbastanza tranquilla e agiata, dal punto di vista economico le numerose proprietà lo consentivano. La loro vita coniugale fu allietata dalla nascita di due figli: Sebastiano che entrò in tenerissima età in un convento di frati francescani; ed Andrea che nel 1753, a 19 anni, sposò Rosa Vignarolo. Lorenzo, di salute cagionevole, era molto preoccupato della vita dopo la morte, così venne convinto da due spregiudicati preti a donare tutto quanto possedeva alla chiesa, con la promessa di una salvezza eterna.  Così, dopo la morte dell’uomo, i due ecclesiastici fecero di tutto per prendere tutti i possedimenti della donna, scatenando una guerra tra i due schieramenti. Ad un certo punto, per averla vinta, i due preti giocarono l’ultima carta: ordendo un colossale imbroglio accusarono Cecilia di fattucchieria, un delitto facile ad essere creato dal nulla. Nel febbraio 1769, infatti a Soveria, era morto in circostanze apparentemente misteriose il canonico don Antonio Ferraiolo. La Faragò, risentita nei confronti dei due canonici e del clero di Soveria per essere stata ridotta in miseria, aveva più volte minacciato tutti gli ecclesiastici del luogo. Pertanto i due preti non ebbero alcuna difficoltà a far credere che la donna avesse provocato con una magia la morte dell’uomo, ricorrendo ad una serie di testimoni, fatti e circostanze ben orchestrati ed abilmente congegnati. I due convinsero la madre del defunto, di nome Vittoria Rossetti, che Cecilia avesse provocato la morte del figlio, tanto da arrivare a denunciarla per stregoneria. Secondo le accuse, la donna avrebbe compiuto la magia in due momenti: prima avrebbe gettato una polvere magica contro l’uomo; in un secondo tempo, in chiesa, avrebbe ammaliato con le labbra e gli occhi la vittima. All’atto del maleficio il prete avrebbe cambiato voce. Da quel giorno le condizioni di salute dell’uomo si sarebbero improvvisamente aggravate e, nonostante il tentativo di togliere il maleficio, in breve tempo morì. L’autopsia, eseguita da un medico del luogo, avrebbe confermato che la morte del canonico era dovuta a cause misteriose. I due canonici, senza l’autorizzazione del governatore della giustizia momentaneamente assente, incarcerarono la presunta strega, legandola con delle catene; dopodiché si introdussero nella sua casa, presero unguenti, minerali, ossa che sarebbero stati nel processo utilissimi elementi di prova. Incarcerata, tuttavia la corte di Catanzaro dichiarò di non dover procedere contro la donna. La signora Rossetti non si arrese e fece appello, contro il decreto, presso la Gran Corte della Vicaria di Napoli. L’accusata, per nulla intimorita, nominò come proprio difensore Giuseppe Raffaeli, avvocato ventenne di Catanzaro che nonostante fosse alle prime armi esternò, nella sua perorazione, eccezionali capacità oratorie, straordinaria preparazione giuridica, medica e scientifica, dimostrò partendo dalla cultura greca la non esistenza della stregoneria, smontando ad uno ad uno tutte le accuse contro la donna. Era falso che l’uomo fosse morto per cause misteriose: le medicine somministrate al canonico dai due inesperti medici non erano adatte a curare il male, anzi avevano aggravato le condizioni di salute del malato, fino a provocarne la morte. Raffaeli, con un tono ironico e spesso sarcastico, continuava la sua requisitoria contro la grossolana ignoranza dei due medici, che privi dei più elementari principi di medicina, si erano spaventati per la mobilità delle articolazioni del cadavere del prete, attribuendole a cause soprannaturali. Numerose infine erano state, secondo l’avvocato, le manipolazioni delle carte processuali. Il processo si concluse con l’assoluzione dell’imputata. La donna pur in condizione di netta inferiorità, ed in presenza di un forte e prepotente clero era riuscita, con il suo combattivo ed indomito carattere e con la sua coraggiosa ribellione, a contrapporsi ai due avidissimi preti. L’avvocato riuscì a dimostrare con logica, straordinaria perizia e cultura l’inconsistenza delle accuse, ma aveva soprattutto provato che magia o stregoneria non dovessero essere perseguitati come reati. La sua arringa fu così celebre, da spingere il re di Napoli ad abolire il reato di stregoneria, primo sovrano a farlo. La donna fu assolta e risarcita per l’ingiusta detenzione. La sua fu la vittoria di tutti contro il pregiudizio, vinse quella causa, diventando un’eroina civile.

Cecilia Faragò è stata una donna complessa e misteriosa, capace di lottare strenuamente contro le ingiustizie e contro la rigida mentalità dell’epoca. Ancora una volta le donne hanno dato prova di grande forza di carattere e, ancora una volta, la Calabria è stata protagonista di un momento storico assolutamente unico ed estremamente affascinante.

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