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venerdì, Novembre 22, 2024
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HomeAfricoL’alluvione “liberatore”? Tante promesse tradite…

L’alluvione “liberatore”? Tante promesse tradite…

Prima e dopo la seconda guerra mondiale, quello di Africo e Casalinuovo era un popolo piegato dalla fame e dalle malattie. Talmente annichilito dalla miseria che il filantropo anglo-piemontese passava le notti insonni davanti alla sua tenda, piazzata nel 29 nel centro di Africo, a chiedersi il perché di tanto accanimento del destino su quella gente. Ai disperati non restava altro che pregare, Dio, gli dei, ma anche il diavolo se esso fosse stato disposto ad aiutarli. E dato che la Calabria è stato spesso il posto delle cose al contrario, il miracolo avvenne, ma arrivò nelle forme di una catastrofe naturale.

Africo non era un paradiso, dacché un potere che veniva da fuori era arrivato anche lì a far finire le terre migliori alle quattro o cinque famiglie disposte a servire il governante di turno. Forse un posto fantastico non lo era mai stato e le storie, che raccontavano di un tempo in cui ogni famiglia aveva la terra bastante a pascolare la propria mandria di capre e vivere con dignità, erano solo leggende. Di un passato, forse migliore, restano poche tracce visibili e i cunti dei vecchi, resta, però, la prova di una migliore intelligenza, quella che nonostante gli stenti ha conservato fino a noi una montagna pressoché intonsa. Per stare all’epoca su cui si hanno notizie certe, basta andare a leggersi “tra la perduta gente” di U. Zanotti Bianchi, o i suoi resoconti, guardarsi le sue foto e quelle di un grande fotografo come Tino Petrelli. Ci si renderà conto che prima e dopo la seconda guerra mondiale, quello di Africo e Casalinuovo era un popolo piegato dalla fame, dalle malattie. Talmente annichilito dalla miseria che il filantropo anglo-piemontese passava le notti insonni davanti alla sua tenda, piazzata nel 29 nel centro di Africo, a chiedersi il perché di tanto accanimento del destino su quella gente. Un popolo in catene, in mano a pochi notabili rurali, un piccolo esercito di schiavi buono a lavorare fino a crepare. La divisione sociale era semplice, quattro o cinque famiglie avevano quasi tutto, una ventina riusciva a costo di sacrifici enormi a campare e il resto aveva solo occhi per i bisogni delle mosche.                   Ai disperati non restava altro che pregare, Dio, gli dei, ma anche il diavolo se esso fosse stato disposto ad aiutarli. E dato che la Calabria è stato spesso il posto delle cose al contrario, il miracolo avvenne, ma arrivò nelle forme di una catastrofe naturale. Piovve per giorni, che erano le preghiere dei poveri a portare giù l’acqua. Il diluvio si portò via una decina di disperati e sotterrò qualche casa. Uno smottamento e qualche frana. “Alluvione”, disse il governo, i poveri si strizzarono l’un l’altro gli occhi incispati e confermarono, “alluvione” gridarono in coro. In quel disastro, vero o presunto, i notabili ci videro un nemico che gli avrebbe portato via gli schiavi. I poveri lo considerarono un liberatore, venuto a spezzare le catene ormai insopportabili. L’ordine di abbandonare il villaggio, delle prefetture, fu accolto con grida di giubilo dai derelitti e avversato in ogni modo dai possidenti. Ma i poveri si sa sono come i sassi delle fionde, una volta lanciati viaggiano per inerzia e cadono dove li porta il tiro. E quelli di Africo e Casalinuovo nemmeno ci pensarono a dove sarebbero cascati, s’infilarono dentro la fionda e “vada come vada”, si dissero, “ovunque sarà meglio che qui”. Caddero in un pantano putrido, in faccia allo Jonio. E con tante terre asciutte e salubri a mezzacosta, li andarono a ficcare in un acquitrino, casa sino ad allora della malaria. I poveri ebbero pane a mezzogiorno e a sera e casa col bagno, l’acqua e la luce. Un sogno. Chi avevano pregato li aveva portati in paradiso. Un sogno che durò tanto, fino a quando i ricordi della miseria furono troppo vivi. Ma si sa anche, che i brutti ricordi, ognuno tende a dimenticarli e non di solo pane vive l’uomo. Le comodità fanno aumentare le pretese e allora si va a cercare il pelo nell’uovo. I poveri volevano un lavoro, un po’ di terra per zappare, la vita se la volevano guadagnare, insomma. Il sogno lentamente si spense, chi nacque dai profughi lo vide che si era in un pantano, in case di legno fradicio o di cemento misto alla sabbia di mare. Lo vide che si era finiti in un recinto di un chilometro quadro. E anche al mare le terre sono sempre dei notabili. E la morte dà sempre la precedenza ai disgraziati, così ai morti per fame di un tempo si sostituirono quelli per un brutto male. E nonostante la tragedia imperante, da noi va di moda la farsa e anche non si dovrebbe, se si volesse ridere un po’, basterebbe andarsi a vedere, su youtube “Africo risorta”, il video del cinegiornale Luce, del 53, in cui fra un tripudio di autorità in ghingheri e una folla gioiosa di profughi, una voce fuori campo annuncia l’impresa, “Africo è oggi una moderna cittadina con abitazioni salubri e perfettamente arredate”.

Gioacchino Criaco

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