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mercoledì, Dicembre 18, 2024
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Il Crowdfunding per 17 indigenti? Vergogna!

Venerdì la maggioranza che sostiene il governo di Giorgia Meloni ha inserito un emendamento nella legge di bilancio che sta alimentando qualche discussione, perché prevede di aumentare lo stipendio che ricevono i ministri e i sottosegretari che non sono eletti in parlamento. Sono quelli che hanno un ruolo di governo, ma non sono né deputati né senatori, perché non si candidarono alle ultime elezioni legislative del 2022 o perché a quelle elezioni non furono eletti.

Galileo Violini

È sparare sulla Croce Rossa confrontare l’aumento di oltre 7000 euro (giusto, secondo il viceprimomistro Tajani che pensa a chi lascia una professione redditizia) con l’1.80 euro di aumento delle pensioni minime. Dire che la misura è in fondo un crowd funding forzoso i pochi centesimi al mese da parte dei quei pensionati può parere retorica a buon mercato. Infatti ridurre il discorso a una problematica sociale è nobilitare una misura certo vergognosa, impolitica in tempi di crisi, ma soprattutto ingiustificabile internamente, senza necessità di confronto con altre possibilità, valutando il costo di opportunità di un impegmo in fondo modesto nell’economia dello Stato. 

Il Governo Meloni ha 64 membri. 17 non sono parlamentari. Essi sarebbero i beneficiati dalla proposta di equiparazione del loro trattamento economico a quello dei colleghi che sono anche parlamentari.

L’irragionevolezza della norma dovrebbe essere ovvia. Due funzioni diverse, ciascuna pagata. In base a quale principio i membri del governo non parlamentari debbano ricevere lo stipendio dei parlamentari lo si potrebbe forse spiegare facendo ricorso ad una base logica ugualitaria veteromarxista, ma un fondamento, ancorchè mon particolarmente lodevole per la categoria, bisogna riconoscerlo. 

Inoltre non può non far sorridere che la proposta venga proprio da chi si era a suo tempo stracciato le vesti per la nomina a primo ministro di non parlamentari.

Quattro mesi fa scrissi una nota sull’assenteismo parlamentare. È opportuno ricordarne alcuni dati. Dodici senatori che sono anche membri del governo, sette dei quali ministri e cinque sottosegretari, non hanno partecipato, giustificandolo con motivi di missione, ad almeno il 70% delle votazioni. Se il limite dell’asticella si spostasse al 50% delle votazioni, sarebbero stati diciotto (nove ministri, un viceministro e otto sottosegretari). Alla Camera dei deputati la situazione è simile. Con una soglia del 70%, i membri del governo-deputati che hanno giustificato almeno il 70% delle loro assenze in quanto in missione, risultano essere 24, (8 ministri, 3 viceministri e 13 sottosegretari). Poco margine rimane per ritoccare questi risultati abbassando il limite al 50% delle votazioni. Infatti si aggiungerebbe solamente una sottosegretaria.

Riassumendo diciassette membri del governo non parlamentari dovrebbero essere pagati (senza esserlo) anche come parlamentari e 43 parlamentari ricevono entrambi gli stipendi ma, anche a causa degli impegni ministeriali, adempiono a meno della metà dei loro doveri parlamentari.  

Po’re stelle direbbe un romano dei quattro cirenei restanti, stakanovisti, unici che il loro doppio stipendio se lo sudano. Quindi un fondamento, a parità di lavoro parità di stipendio ci sarebbe. Certo la parità nasce da un non lavoro. Di fronte a una tale situazione il bambino dell’imperatore nudo di Andersen forse chiederebbe: ma invece di pagare di più i membri del governo non parlamentari, non sarebbe più logico ridurre l’assegno ai parlamentari membri del governo?

Questo può risultare non facilmente digeribile ai nostri disinteressati parlamentari. 

Quindi non sarebbe allora il caso di stabilire un regime di incompatibilità? Specialmente nelle democrazie presidenziali, meta agognata della presidente del Consiglio, i ministri spesso non sono, o addirittura non possono essere, membri dl parlamento. E comunque la maggioranza (quindici) dei paesi europei, sia pure in maniera diversa, sanciscono un’incompatibilità tra funzione legislativa ed esecutiva.

In Belgio i ministri rimangono nel Parlamento, ma non votano.  Simile al Belgio è, in certa misura, il caso della Polonia. In altri, come Bulgaria, Francia e Lituania, la posizione parlamentare è congelata durante il periodo dell’incarico governativo. Le necessarie dimissioni non pregiudicano però il reintegro e che il seggio sia riacquistato in caso di termine della funzione ministeriale. In tutti gli altri,  Austria, Cipro, Croazia, Paesi Bassi, Portogallo, Repubblica Ceca, Romania, Slovenia, Svezia e Ungheria, l’incompatibilità è assoluta.

Questi sono fatti. Come giudicare chi ha avuto la spudoratezza di proporre, contestualmente a tante misure che penalizzano buona parte della popolazione, l’adeguamento, chi non se ne assume la responabità (è iniziativa parlamentare), chi la difende dal governo, lo lascio al lettore. 

 

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