In un momento in cui l’Autonomia differenziata rischia di ampliare il divario Nord-Sud, c’è speranza per i giovani di restare nella propria terra e studiare al Meridione.
Galileo Violini
Il nuovo rapporto Censis sulle Università italiane è stato appena pubblicato. Come quasi sempre accade, molti occhi si sono puntati su cosa è conveniente che studino i giovani e in quale Università, e molta minore attenzione è stata dedicata al quadro macro che offre il Paese.
È strano ma, in un sistema di educazione superiore quale quello italiano dominato dalle Università Statali, spesso ciò che attira l’attenzione maggiormente è la competizione tra i diversi Atenei, quasi come se l’educazione superiore che esse offrono non viene valutata come un servizio pubblico, che dovrebbe essere di qualità omogenea su tutto il territorio nazionale. È successo anche quest’anno. Le analisi del rapporto Censis si sono come al solito soffermate su variazioni di posizione nelle varie graduatorie. Tra queste ha avuto risonanza al primo posto delle Università, l’Ateneo della Calabria tra i grandi Atenei con iscritti tra 20.000 e 40.000 studenti.
In questo articolo vorrei porre in evidenza due aspetti macro, lasciando per il momento da parte altri aspetti più puntuali del rapporto Censis che mi riservo di affrontare prossimamente.
Il primo tema su cui mi vorrei soffermare è quello delle immatricolazioni. Nella nota introduttiva al Rapporto si analizzano diverse piccole differenze tra le diverse zone del Paese, o di interesse per una o altra disciplina, dati di dubbia rilevanza, la cui analisi puntigliosa fa venire in mente quelle che si sogliono fare dopo le elezioni o riguardo le intenzioni di voto, ingigantendone l’importanza di piccole differenze percentuali.
Non si fissa l’attenzione su un fatto. Il recupero delle immatricolazioni pare finito, anche perché, sebbene non sia più presentato il raffronto con la popolazione diciannovenne, il divario che aveva seguito la crisi economica mondiale di una quindicina di anni fa è stato essenzialmente assorbito. Questo ha un’implicazione sulla quale avevamo già richiamato l’attenzione qualche tempo fa. La crisi demografica comporta una riduzione dei potenziali iscritti del 20% da qui a vent’anni. Come le si farà fronte? Con una politica di internazionalizzazione coerente con uno sviluppo della cooperazione internazionale, per esempio in Africa dove nello stesso periodo si prevede la triplicazione degli studenti universitari? Con l’accorpamento di Università, dopo la loro proliferazione di cinquant’anni fa? Con una loro specializzazione, passando da Università generali a Università specialistiche? Con una riduzione del numero delle Research Universities e del declassamento di alcune a Teaching Universities?
Il secondo tema di carattere generale che stranamente non vedo porre in evidenza non è, strettamente parlando, di competenza delle singole Università o del solo Miur, però i dati del rapporto lo gridano e non è possibile ignorarlo solo perché la finalità del rapporto Censis permette ai diplomati una scelta consapevole di cosa e dove studiare.
È stato forse in quest’ottica che in una intervista al Rettore dell’Unversità della Calabria, orgoglioso della posizione di quest’anno della sua, e già mia Università, posizione che per altro vorrei ricordare era quella abituale nei primi anni del rapporto Censis, è stata formulata la domanda “C’è un motivo particolare per cui uno studente dovrebbe scegliere il vostro Ateneo?”.
La risposta del Rettore è stata:
“In realtà non c’è motivo per non sceglierlo. C’è un’offerta formativa ampia, di qualità e rispondente alle esigenze del mondo del lavoro.”
Purtroppo non è così. Il motivo ci sarebbe, certo non per colpa dell’Università della Calabria. Sfortunatamente, non basta rispondere alle esigenze del mondo del lavoro in un paese come il nostro, con immense differenze tra Nord e Sud.
In un momento in cui la recente legge sull’Autonomia regionale rischia di amplificare tali differenze in settori cruciali quali la sanità, è opportuno direi necessario osservare come problemi analoghi, non solo di prestazioni minime ma di uguaglianza di opportunità, siano posti in evidenza anche per quanto riguarda l’istruzione universitaria, come mostra impietosamente e a quanto pare inavvertitamente, lo stesso rapporto Censis.
La graduatoria Censis delle Università si basa per gli Atenei Statali su sei indicatori, il sesto dei quali, non è utilizzato nelle graduatorie degli Atenei non statali ed è l’occupabilità, definita come “tasso di occupazione dei laureati (magistrali biennali e magistrali a ciclo unico) a un anno dal conseguimento del titolo”.
Questo indicatore che è presente da pochi anni nel rapporto, merita di essere analizzato separatamente dagli altri.
Nel caso dei Mega-Atenei (con oltre 40.000 studenti) il suo valore medio è 90 nel Nord, 89 nel Centro e 80 nel Sud e Isole.
Nel caso dei grandi Atenei come l’Università della Calabria, il valore è rispettivamente 93,4 per il Nord, 89 per il Centro, 69 per Sud e Isole.
Nel caso degli Atenei medi (10.000 – 20.000 studenti) i valori sono 95.5, 92, 74.
Nel caso dei piccoli (meno di 10.000 studenti) che non esistono nel Nord, i valori per Centro e Sud e Isole sono 83.7 e 73.3.
Ci sarebbe un’eccezione. Tra i Politecnici, quello di Bari ha una occupabilità di 101, superando la media dei tre del Nord di 106.3, anche se nella valutazione complessiva, risulta inferiore.
In un tale quadro assolutamente omogeneo, indipendente dalla dimensione della popolazione studentesca e dalla qualità dell’offerta formativa, alla domanda “Perchè studiare al Sud?” è difficile dare delle risposte convincenti e basate su motivi realmente solidi.
Tuttavia, non può e non deve essere così.
Certo non basta il fiore all’occhiello o la cattedrale nel deserto di una Università eccellente, ma ricordiamo al Governo e alla società civile italiana che i cittadini del Sud meritano di più. Solamente il giorno in cui l’occupabilità cessa di essere il 10 o 20% minore che al Nord, avremo realmente dimostrato che vale la pena studiare al Sud.