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Autonomia differenziata e primi passi di privatizzazione della scuola

Non ci scassate l’Italia!”. Come la politica degli slogans vince sulla mancanza di una politica scolastica favorendo il processo per la privatizzazione delle scuole pubbliche.

Vito Pirruccio

È iniziata la raccolta delle firme per la campagna referendaria contro la Legge Calderoli e, come premessa generale, occorre dire subito che bisogna combatterla convintamente, fino in fondo, per arginare la spaccatura del Paese. In ogni caso ci sono due modi di approcciarsi a questa sacrosanta lotta contro il provvedimento della destra che porta il nome “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione”. Uno è l’approccio squisitamente propagandistico al quale si aggrappano coloro i quali contrastano il disegno della destra sfruttando contestualmente l’occasione per agganciare il malcontento dell’elettorato e preparare l’alternanza alla guida del Paese; l’altro, invece, scruta nelle cause e negli atti concreti portati avanti nel tempo dalla politica di entrambi gli schieramenti nell’ultimo trentennio e cerca con fatica di capire come arrestare la china e, se possibile, come riparare il percorso costituzionale scardinato da scelte insensate e demolitrici dell’incipit dell’art. 5 della Costituzione: “La Repubblica, una e indivisibile …”.

Il primo metodo, a mio modestissimo parere, fa affidamento su quella parte del Paese dalla memoria corta raggiungibile con una campagna di slogans efficace nella misura in cui il destinatario del messaggio, intravedendo il pericolo imminente, metta nel dimenticatoio i torti procurati, dal 1990 in poi, all’assetto costituzionale unitario della Nazione; i propugnatori del secondo metodo, invece, realisti e non ingenui, sanno che il treno referendario contro l’autonomia differenziata va preso al volo, altrimenti rischia di non passare più se, anche questa volta, l’elettorato non prenderà sulle proprie spalle il destino del Paese, come lo hanno concepito le Madri e i Padri Costituenti.

Intanto, occorre aprire bene gli occhi e non cullarsi sugli slogans (“Spezza Italia”, “Secessione dei ricchi”, “Non ci scassate l’Italia!”) i quali, veritieri dal primo all’ultimo, andavano lanciati e cantati 23 anni fa in occasione della Riforma Costituzionale n. 3 del 2001  del duo Amato-D’Alema, quando è stato realizzato il primo ostracismo costituzionale della Repubblica italiana con la complicità della politica e degli elettori al seguito. La nostra Brexit, traduzione della nostra difficoltà di tornare sui nostri passi e riparare agli errori commessi, non è data dalla Legge Calderoli, ma dalla Riforma del Titolo V della Costituzione voluta dal Governo di centrosinistra a guida del “Dottor Sottile”. Tanto “sottile” da essere stato capace di partorire due perle della politica italiana: il prelievo forzoso dello 0,50% sui conti correnti degli italiani per conseguire il pareggio di bilancio il 10 luglio 1992 e la Riforma Costituzionale n. 3 del 2001 che ha consentito all’ideologo della Lega Gianfranco Miglio, morto nell’agosto del 2001, di veder incastonato parte del suo progetto-gioiello di federalismo nella Carta Costituzionale del 1948

Ma occorre porre rimedio e, anche, l’affidamento alla memoria corta può tornare utile.

Ma la politica fatta con gli slogans tralascia le macerie che incombono sul Paese, nel mentre le menti sottili (Questa volta veramente sottili) non si fanno impressionare dai rumors elettorali e perseguono imperterriti i propri obiettivi. È quello che sta succedendo a proposito di Autonomia Differenziata e Scuola.

Il 24 giugno scorso, nel “silenzioso rumore assordante” dei media e della politica parolaia italiana, è stata presentata presso la Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano (Sede certamente non scelta a caso) “La Fondazione della Scuola Italiana” che, come recita il comunicato stampa del Ministero dell’Istruzione e del Merito pubblicato sul sito delll’ex MIUR, è “un ente non profit con il contributo iniziale – Udite, udite!- n.d.r- di UniCredit, Banco BPM, ENEL Italia S.p.A., Leonardo S.p.A. e Autostrade per l’Italia” che “entro il 2029 aspira a raccogliere 50 milioni di euro da aziende, privati e bandi … per recepire le esigenze territoriali e ottimizzare l’allocazione delle risorse, attraverso lo sviluppo di progetti e bandi nazionali”.

La Fondazione della Scuola Italiana è l’ennesimo tassello sulla via della privatizzazione della scuola pubblica, treno partito negli anni ’90 con la sfilza dei decreti “Bassanini” (I capisaldi della strada “riformatrice” li troviamo confluiti, con richiami ricchi di buoni propositi, nella Legge n. 59/1997 e a seguire nel DPR n. 275/1999), deragliato sul binario morto della controriforma nota come Modifica del Titolo V della Costituzione del 2001 e rimesso in assetto di binario nei giorni nostri con la Legge Calderoli sull’Autonomia Differenziata.

Ma soffermiamoci un attimo sulla Fondazione della Scuola Italiana e sui sottoscrittori del protocollo d’intesa. È vero che si parla nel testo diffuso dal MIM di finanziamenti di progetti nazionali, anche se non manca il riferimento alle “esigenze territoriali e all’ottimizzazione delle risorse”, ma il BANCO BPM, quarto gruppo bancario italiano quotato in borsa e con un forte radicamento territoriale, lo vedete disposto a finanziare i territori a povertà educativa del Sud (territori nei quali non vi è traccia di tale presenza bancaria) o, piuttosto, pronto ad elargire risorse ai ricchi territori del Lombardo-Veneto? BPM, lo ricordo per rigore di cronaca, è il gruppo bancario di origine cooperativa nato dalla fusione della Banca di Verona e della Banca della Provincia di Milano. Dentro il quadro normativo dell’Autonomia Differenziata, Lep o non Lep, chi impedisce a tali gruppi di potere economico-finanziario (Non solo il Banco BPM) di portare nell’orbita della logica privatistica il sistema scolastico del cosiddetto motore economico dell’Italia?

Sono domande insensate o scenari possibili?

Si sta avverando, secondo il mio modestissimo parere, quello che scrisse due anni fa, a proposito della privatizzazione della scuola pubblica americana, la più grande studiosa di politiche scolastiche negli USA, Diane Ravitch. La studiosa americana sostiene che l’assalto dei potentati economici alla scuola pubblica è avvenuto in America più di quarant’anni fa, a partire dal famoso Rapporto “Nation at Risk” del 1983, quando si cominciò a diffondere la convinzione, alimentata dai media, del livello di istruzione mediocre impartito nelle scuole pubbliche. In effetti, come sta avvenendo in Italia, è innegabile che il livello formativo della scuola pubblica americana è letteralmente crollato. In Italia le cause vanno ricercate nella riduzione degli investimenti nel settore pubblico; nella gestione superficiale della formazione e del reclutamento del personale scolastico; nell’impoverimento generalizzato del bagaglio culturale offerto dal sistema dell’istruzione e della formazione dalla Scuola dell’Infanzia all’Università. In Italia, in particolare, a seguito dei costi non sopportabili dalle famiglie per la formazione universitaria in presenza, stiamo registrando, da qualche anno a questa parte, il diffondersi delle lauree e della formazione online. Quale controllo qualitativo avviene in questo settore della formazione universitaria? Nel mentre i Fondi di Investimento puntano al controllo e alla gestione della formazione digitale, lo Stato è attrezzato per governare un tale ambito strategico della vita socio-economica della Nazione? Sono interrogativi e richieste di interventi di governo delle politiche scolastiche e formative non più rinviabili, perché la lobby privatistica è capace di assoldare alla sua causa, in America come in Italia, tutti i settori della politica nazionale, da destra a sinistra.

Diane Ravitch sostiene, infatti, che una volta diffuso il convincimento che il “pubblico non regge”, anche, all’interno dei settori tradizionalmente progressisti la strada della privatizzazione risulta spianata.

È chiaro che restare inermi dinanzi al decadimento progressivo della scuola pubblica o restare appesi agli slogans ad effetto (“Spezza Italia”, “Secessione dei ricchi”, “Non ci scassate l’Italia!”), senza preoccuparsi di mettere seriamente mano allo smottamento progressivo della formazione del Paese, equivale a regalare spazio e terreno di conquista alla privatizzazione strisciante della scuola. Peggio ancora se ci si chiude in un miope autoconvincimento che esistono isole, modelli, eccellenze nell’ambito di un allarmante deserto educativo-formativo certificato nei dettagli dalle prove annuali INVALSI. Se ogni istituzione scolastica venisse effettivamente obbligata a pubblicare per intero, senza ripararli magari nel chiuso del Collegio dei Docenti, i dati disastrosi dei risultati scolastici (Più accentuati al Sud rispetto al Nord) avremmo qualche vaniloquio in meno e la consapevolezza in più che la sacrosanta lotta contro l’Autonomia Differenziata non deve fermarsi alla Legge Calderoli e agli obbrobri costituzionali che l’hanno preceduta, ma proseguire e cogliere, anche, le responsabilità in loco che sono tante, dalle scelte di Dimensionamento Scolastico operate dagli Enti Locali (di destra e di sinistra), alla gestione dei singoli istituti divenuta autoreferenziale in assenza di rigorosi controlli esterni da parte di soggetti pubblici dotati di autentico potere d’intervento.

 

 

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