Il 4 febbraio scorso è morto Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani e già sovrintendente del Polo Museale a Firenze, ministro dei Beni culturali nel governo Dini dal ’95 al ‘96, uno dei massimi storici dell’arte.
Matteo Lo Presti
Era da tempo malato il professor Paolucci, ma non aveva perso la sua generosità e la sua cordialità comunicativa che gli proveniva, non era difficile da immaginare, dal suo onesto e sincero rapporto con il mondo dell’arte, cioè dal contatto umile e mai arrogante con il mistero della creatività di cui era diventato emozionante comunicatore con il linguaggio semplice di chi ama i suoi ascoltatori con curiosità.
Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani e già sovrintendente del Polo Museale a Firenze, ministro dei Beni culturali nel governo Dini dal ’95 al ‘96 in un’intervista di qualche anno fa dichiarò che se gli pungeva vaghezza di pensare al paradiso, pensava a qualche cosa che assomigliasse ai Musei Vaticani o al museo Nazionale del Bargello di Firenze. È piacevole pensare che in questo tormentato paese ci sia qualcuno che invece di mirare gli inferi attraverso la spazzatura di Napoli o la cementificazione delle coste o le violenze delle cosche mafiose o al ladrocinio codificato sul patrimonio artistico del Bel Paese, tenga gli occhi rivolti al cielo come lampo duraturo per illuminare il cammino delle persone alle quali racconta la luce delle creazioni delle arti figurative.
Antonio Paolucci con intelligenza sapeva orientare la sua attività verso interessi mai marginali. Sua passione critica era la Cappella Paolina, collocata all’interno dei palazzi apostolici a fianco della più famosa Cappella Sistina, con la quale si comunica attraverso l’Aula Regia.
La Cappella Paolina, luogo di culto riservato al Papa ed alla famiglia pontificia, fu edificata da Antonio da Sangallo dal 1537 al 1542 su commissione di Paolo III Farnese, mentre a Michelangelo fu affidato l’incarico di realizzare due affreschi contrapposti che rappresentano la Conversione di Saulo e la Crocifissione di San Pietro, opere realizzate nell’arco di otto anni tra il 1542 e il 1550, in mezzo ad una lunga serie di altri impegni. Michelangelo era già anziano e l’opera di affresco della cappella fu continuata dal bolognese Lorenzo Sabbatini e dal giovanissimo pesarese Federico Zuccari. La Cappella è stata al centro di variegati interessi culturali, prima di tutto perché è stata considerata da tutti i papi riferimento fondante dei principi di fede: Saulo che convertito rinasce a nuova vita e il martirio di San Pietro con l’erezione della croce simboleggiano la fondazione stessa della Chiesa. Momenti decisivi della vita di un cristiano. Una lunga serie di papi da Alessandro VIII e Pio IX fino a Paolo VI si sono prodigati per conservare, migliorare le condizioni della struttura il cui ultimo restauro fu consacrato da papa Benedetto XVI nel luglio del 2009, al termine dell’anno paolino con vespri solenni.
Interessante era ascoltare i temi che Paoluccci disegnava dell’itinerario creativo di Michelangelo uscito stremato dall’eccelso lavoro compiuto nella grande Cappella Sistina. Paolucci ha spesso parlato a proposito degli affreschi come del “testamento spirituale, improntato a vasta mestizia, al profondo pessimismo” di Michelangelo. C’è poi l’interesse profondo che Maurizio de Luca, capo restauratore del Vaticano, aveva sollevato intorno alla figura del cavaliere che indossa un turbante azzurro con lapislazzuli e che sarebbe l’autoritratto che il genio fiorentino avrebbe inserito nella crocifissione di san Pietro. Antonio Paolucci, riminese, aveva una credibilità culturale né vanesia, né istrionica, bastava ascoltarlo mentre in qualche televisione locale illustrava, con pacato equilibrio le bellezze artistiche dell’immenso patrimonio italiano. Per questo forse non si attardava sui pettegolezzi che volevano la Cappella riconsacrata per esorcizzare riti satanici che al suo interno sarebbero stati celebrati in decenni lontani. E sarebbe bello che tornasse a raccontare i quadri che amava di più: la Trasfigurazione di Raffaello e il giovane “coatto romano” (così lo definisce Paolucci) raffigurato da Caravaggio nel celebra dipinto “Omnia vincit amor”.
Non lascia eredi. La sua fermezza di studioso esempio di etica rara,non era mai scaduta in controversie eccessive, prepotenti, non adatte ad un temperamento non certo bellicoso. Paolucci sapeva essere sovrano spettatore dell’impegno a cercare senza acrimonia, il sollievo di un cammino che omaggiava l’intelligenza umana con l’aiuto dei suo compagni di studio, gli artisti che rendono il mondo bello da vivere e da apprezzare. Ci mancherà!