Alle prime ore di questa mattina, i Carabinieri del Gruppo di Gioia Tauro, con il supporto operativo di personale dello Squadrone Eliportato Cacciatori di Calabria e di unità cinofile, hanno eseguito due ordinanze di custodia cautelare in carcere nei confronti di altrettanti soggetti – padre e figlio -, ritenuti inserita nel contesto di ‘ndrangheta del centro medmeo, ed in particolare vicini al contesto criminale rosarnese della cosca Pesce. Peraltro il padre risulta gravato da due precedenti condanne passate in giudicato per il reato di cui all’art. 416 bis c.p., quale intraneo alla citata articolazione di ‘ndrangheta.
Le indagini da cui scaturiscono gli odierni provvedimenti restrittivi, emessi dal GIP del Tribunale di Reggio Calabria, su richiesta della locale Direzione Distrettuale Antimafia, diretta dal Dott. Giovanni Bombardieri, consentivano di attribuire agli indagati, allo stato degli atti e salve le successive valutazioni di merito, gravi condotte estorsive – perpetratesi per lungo tempo- e violenze private, tutte aggravate dalle finalità mafiose, avvenute in Rosarno e Cinquefrondi. Le attività svolte dai Carabinieri di Gioia Tauro, corroborate da propalazioni di diversi collaboratori di giustizia, hanno permesso di evidenziare l’elevatissima capacità criminale degli arrestati, espressa in molteplici occasioni con metodologie tipiche degli aggregati mafiosi, imponendo il proprio volere, tramite una generale condizione di assoggettamento ambientale, su individui ed attività commerciali piegati alle loro esigenze ed oppressi dalla loro ingerenza. Tale modus operandi, affiancato al ripetuto ricorso ad intimidazioni – di natura fisica e verbale – si sostanziava in una perdurante sopraffazione ed interferenza in un’attività economica sita nella Piana di Gioia Tauro, nonché nella limitazione della libertà di autodeterminarsi di più individui. Le molteplici e difformi fonti di prova raccolte hanno quindi contribuito a restituire un’immagine complessa dell’aggregato criminale, disvelandone gerarchie ed operatività, delimitandone la sfera di influenza illecita e gli equilibri esterni nel confronto con paritetiche o “superiori” organizzazioni di tipo ‘ndranghetistico.
L’indagine, tra l’altro e sempre allo stato degli atti, ha dunque permesso di accertare:
- l’esistenza di una perdurante attività estorsiva ai danni di una cooperativa agricola sita in Candidoni, divenuta nel tempo vera e propria fonte di reddito illecito dei componenti l’aggregato familiare. L’ingerenza sull’attività commerciale, oltre che con l’indebita appropriazione mensile di parte degli utili, si sostanziava nell’esercizio di un controllo diretto de facto, che spaziava dal deciderne le assunzioni e la politica aziendale e gestionale, arrivando financo a regolare contrasti tra i dipendenti. Tale illecito impossessamento, che nella sostanza privava i reali rappresentanti la cooperativa della libertà di autodeterminarsi in ordine all’esercizio dell’attività, si protraeva per circa diciotto anni, a testimonianza di come, l’assoggettamento di imprese, ottenuto mediante minacce ed imposizioni mafiose, sia tutt’ora business di primaria rilevanza per organizzazioni di tipo ‘ndranghetistico;
- la realizzazione di reiterate minacce nei confronti di un medico, effettuate da più soggetti riconducibili al contesto familiare. Tali comportamenti erano finalizzati ad ottenere un certificato che attestasse l’impellente necessità di effettuare un intervento chirurgico ed il successivo trattamento di riabilitazione neuro-motoria da parte di uno dei componenti della famiglia, in quel momento in carcere. Il professionista, raggiunto anche mediante l’intercessione di un compagno di cella del detenuto e della rispettiva consorte, veniva più volte ingaggiato, sia telefonicamente che di presenza, affinché realizzasse, in tempi brevi e con modalità pedissequamente definite dal congiunto ristretto, l’attestazione a questi funzionale per eludere la restrizione inframuraria ed ottenere una misura alternativa alla detenzione in carcere;
- la reiterata compromissione della libertà di autodeterminarsi dell’ex moglie di uno degli indagati compressa nella propria sfera privata e costretta, lungo tutto il corso della sua relazione coniugale (già originariamente indotta dalla famiglia del marito), e successivamente al termine della stessa, a subire pressioni ed angherie finalizzate, tra l’altro, ad indurla sia a riavvicinarsi al contesto familiare dal quale si era discostata con la separazione sia a porre in essere condotte delittuose per favorire i traffici illeciti del contesto familiare degli arrestati.
Al termine delle formalità di rito, gli arrestati sono stati tradotti in carcere, come disposto dall’Autorità Giudiziaria.
In capo agli indagati e nel rispetto dei loro diritti, si specifica che questi sono ancora da doversi ritenere soggetti alla presunzione di innocenza attesa l’attuale fase del procedimento, la cui colpevolezza potrà essere acclarata solo attraverso una sentenza irrevocabile.