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La Basaglia è una buona legge, ma va applicata

Il caso della povera dottoressa Capovani, uccisa da un ex paziente, ha riacceso la discussione sulla legge 180/78, meglio conosciuta come legge Basaglia. Questa legge restituì un concetto, ovvero che alla malattia mentale va riconosciuta, come paradossalmente prima non accadeva, la dignità della malattia, quindi della sofferenza, quindi della cura e non l’internamento delle persone in luoghi di custodia. Inoltre, restituiva al territorio un’importante parte nella cura, nell’inserimento, che è cura e nella gestione del paziente.

Mario Alberti

Il caso della povera dottoressa Capovani, uccisa da un ex paziente, ha riacceso la discussione sulla legge 180/78, meglio conosciuta come legge Basaglia, prendendo il nome dal suo ispiratore, lo psichiatra veneto fondatore di “psichiatria democratica”. Prima del 1978 esistevano i manicomi, istituti totalizzanti che servivano, a detta dello stesso Franco Basaglia, alla società affinché prendesse le distanze dalle persone affette da patologia psichiatrica.

La legge 180 restituì intanto un concetto, ovvero che alla malattia mentale va riconosciuta, come paradossalmente prima non accadeva, la dignità della malattia, quindi della sofferenza, quindi della cura. E non l’internamento delle persone in luoghi di custodia. E sempre la legge 180 restituiva al territorio un’importante parte nella cura, nell’inserimento, che è cura e nella gestione del paziente. Cosa accadde nei territori lo vedremo adesso. Intanto va detto in premessa che la legge 180 è una buona legge. A tutt’oggi.

Le leggi non devono perdere vigore e significato solo perché gli uomini che fanno parte delle Istituzioni non le applicano.

In questo strano mondo, quindi, appare più facile cambiare una legge che cambiare un apparato burocratico che ne impedisce la piena applicazione.

Non è forse così? Diciamolo però.

Veniamo alla Calabria, ed in particolare alla provincia di Reggio. Le strutture psichiatriche a gestione “mista”, ovvero parte privata, ovvero società cooperative che garantiscono la parte sociale ed alberghiera del servizio, e ASP, che garantisce l’aspetto sanitario, ricadenti nella provincia di Reggio Calabria, da ben otto anni non possono ospitare nessuna persona che ne ha diritto.

Avere diritto in questo caso vuol dire avere bisogno.

Perché è dai bisogni della gente che l’agire politico ed amministrativo deve partire.

Altrimenti, a cosa serve un ufficio? A cosa serve la politica?

Qualcuno me lo spieghi. Io non ci arrivo sa solo, con le mie modeste capacità cognitive.

Torniamo a noi ed all’impossibilità per i nuovi pazienti di accedere a strutture orientate ad un elettivo intervento riabilitativo adeguato alle proprie necessità. Perché accade tutto ciò?

Semplice. Perché le strutture non sono ancora accreditate come tali.

E perché non sono ancora accreditate?

Perché non si procede con gli atti necessari per espletare le procedure di accreditamento.

Chi lo deve fare, le stesse strutture? Certo che no. I pazienti? Meno che mai!

Deve farlo la Regione Calabria, di concerto con l’ASP.

Nel frattempo, cosa accade?

Le strutture proseguono ad esistere senza poter ammettere nuovi ospiti.

Intanto gli Enti che le gestiscono per conto dell’Asp di Reggio, rendendole quindi strutture sostanzialmente pubbliche, mantengono i requisiti organizzativi, il numero del personale, l’aspetto alberghiero come se gli ospiti fossero venti e riabilitabili, mentre sono molti di meno e caratterizzati da sopraggiunta età geriatrica.

Accade che gli Enti gestori lamentano, a ragione, un notevole rischio di tenuta finanziaria.

Oltre i ritardi nel pagamento delle prestazioni, annoso problema che rischia di divenire normalità. Già da tempo i sindacati, i lavoratori, i commissari Asp, a giro, si muovono nella perenne ricerca della soluzione. Ma otto anni sono tanti. Troppi per un paese sedicente civile.

Ed oggi più che mai occorrerebbe rispondere al bisogno delle persone che in un particolare momento della loro esistenza possono trovarsi in condizioni di fragilità mentale.

E andrebbe data una risposta istituzionale forte nel momento in cui si arriva a mettere in discussione una delle norme più corrette, progressiste e funzionali come la legge numero 180 del 1978. L’anno in questione fu anno di conquiste legislative importanti, centrate sui diritti civili e umani, come la legge 194, giusto per fare un esempio.

E nello stesso anno venne promulgata la legge che istituì, in Italia, il sistema sanitario nazionale, la numero 833.

Prima ogni corporazione aveva la sua sanità. Italia unita dal 1861, ma ancora disunita nei diritti. E che ci sia una sensibile regressione sotto l’aspetto delle norme a garanzia degli stessi diritti non è una novità, nell’anno 2023. E precedenti. Penso sempre che dovremmo imparare dai giovani. Dagli studenti che sono anime che portano dentro l’inquietudine transitoria di chi può fare grandi cose. Sempreché ciò venga colto e valorizzato dal mondo degli adulti.

In uno dei miei tanti incontri con gli studenti di una Scuola della Locride, parlammo di diritti, partendo da una poesia di Alda Merini. Una poesia che raccontava quando vennero liberate, Alda e le altre pazienti ricoverate in Manicomio e si misero a correre per i viali, facendo svolazzare le vestaglie come farfalle. I ragazzi lessero con attenzione questa poesia, e mi raccontarono di sentirsi profondamente stupiti dal fatto che delle persone ammalate dovessero perdere il diritto alla libertà, alle cure, alle relazioni umane, all’amore.

Perdessero in buona sostanza il diritto di svolazzare come farfalle libere, per dirla alla Merini.

Che di sofferenza ne sapeva tanto, purtroppo.

E chiudo questa mia riflessione con la frase finale della mia tesi, che aveva come oggetto, appunto, il passaggio tra i Manicomi come strutture totalizzanti ai luoghi di riabilitazione psicosociale.

“Il manicomio ancora cova sotto la cenere e basta un soffio farlo risvegliare”.

Ecco, il manicomio, come custodia non curativa, come esclusione, come indifferenza, come esclusione, come emarginazione, delle persone con patologia psichica, cova assolutamente ben vitale sotto la cenere dell’inerzia.

Il soffio dell’inazione istituzionale lo può fare risvegliare.

 

 

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