Non ha origini calabresi quell’amico mio di Roma che un giorno mi disse di mangiare sempre cibo del sud. “Er mondo è bello, ma ‘a Calabria è bbona” disse. Nessuna ricetta stravagante, prezzi bassissimi, niente accostamenti curiosi, eppure tutta Italia raccomanda di mangiare calabrese. Perché? Perché “c’avemo a robba bbona”!
La cucina dei poveri
Si sa, a noi calabresi piacciono le cose buone; e siccome siamo testardi, continuiamo a mangiare i piatti della nonna, che mangiava i piatti della bisnonna, che mangiava i piatti… beh, ci siamo capiti! Infatti le origini dei nostri piatti “gourmet” risalgono a secoli fa e ognuno di voi li avrà visti almeno una volta sulla tavola apparecchiata alla maniera calabrese. Vi ricordo qualche nome e mi darete subito ragione: frittuli, vermitura, ‘nduja. Allora, ho ragione?
Un piatto di escargot à la Bourguignonne… sì, insomma, di vermitura
Nato come un alimento povero dal gusto estremamente antico e legato al mondo contadino, la lumaca di terra è alla base di piatti che oggi non sono più adatti a tutte le tasche; basti pensare all’uso che se ne fa nella cucina francese, poi esportata in tutto il mondo. Invece la Calabria non si è fatta contagiare dalle mode ed è rimasta fedele alla tradizione: qui si consumano i monacelli, o mportellati, lumachine di terra che si raccolgono – si dice – solo nei mesi senza la “R” (in pratica solo in estate) e si cucinano prevalentemente in umido. Le ricette, comunque, sono tantissime e quasi tutte molto antiche: la prima arriva direttamente dal ricettario di Apicio, lo chef stellato della Roma imperiale, che le serviva fritte e innaffiate con il garum, un condimento a base di interiora di pesce. Pare che a Roma le lumache fossero un piatto ricercato se si pensa che un tale di nome Fulvio Lippino aveva destinato al loro allevamento un intero terreno e le nutriva con alloro e molliche di pane. Inoltre, le lumache erano il cavallo di battaglia delle osterie perché, conservate sotto sale e condite con salse di varia natura, provocavano la sete e aumentavano lo smercio del vino. Sarà pure un piatto povero, ma non c’è dubbio che ha fatto la storia della cucina!
Paese che vai, maiale che trovi
Che mondo sarebbe senza maiali? Anzi, dico di più: che mondo sarebbe stato senza maiali? E sì, perché di allevamenti di maiali si ha notizia a partire dal 4000 a.C. periodo in cui si consumavano in Cina; il suino arriva in Occidente passando per la Mesopotamia circa nel 3.500 a.C.: i reperti fanno chiaramente intendere che già allora esistevano maiali domestici. Per avere le prime testimonianze di veri e propri insaccati, però, dobbiamo aspettare l’Odissea, il poema epico chiamato enciclopedia tribale per il fatto che ci dà notizia di decine di oggetti, usi e tradizioni della grecità classica. Qui i maiali vanno per la maggiore: Circe trasformava in maiali i suoi prigionieri, Eumeo di Itaca possedeva un allevamento di maiali, a base di carne di maiale si realizzavano già alcuni tipi di insaccato.
Anche quando il mondo conosciuto passò sotto l’egida di Roma, il vero vincitore fu il maiale: i cittadini romani lo ritenevano simbolo di forza, oltre ad apprezzarne le succulenti caratteristiche culinarie. Protetto dallo scudo dell’Urbe, il maiale entrò a pieno titolo nella mitica fondazione di Roma: Virgilio racconta infatti che, quando Enea in fuga da Troia sbarcò sul litorale italico, una scrofa bianca con trenta porcellini gli indicò dove costruire le mura della futura città. Plinio il Vecchio testimonia che si conoscevano oltre 50 modi diversi per cucinare la carne, anche perché, com’è noto, del maiale non si butta via niente!
Inoltre, la carne suina è particolarmente adatta alla trasformazione e questo era un fattore essenziale in un periodo in cui la catena del freddo non esisteva ancora e bisognava conservare prodotti deperibili con altri mezzi. La Calabria, che nell’arte di arrangiarsi la fa da padrona, riesce a conservare tutto – proprio tutto – del maiale e a farne anche un appetitoso souvenir gastronomico: le frittole!
Le frittole, che solo a nominarle ne sentiamo il sapore talmente a fondo sono entrate nella nostra essenza di meridionali, sono fatte con gli scarti del suino, quelle che normalmente getteremmo via e che invece sono il piatto forte della tradizione calabrese: lingua, muso, orecchie, gamboni, pancia, coda, rognoni e la cotenna. Tutte queste “delizie” vengono versate in un grande pentolone di rame zincato – a cardara, per intenderci – dove attraversano un processo di cottura molto lungo e laborioso, faticoso al punto da richiedere uno speciale addetto che abbia sviluppato una certa esperienza: u frittularu, appunto.
Le frittole si preparano il giorno stesso della macellazione del maiale e costituiscono il piatto forte della festa. Nel calderone finiscono tutte le parti di scarto del maiale a eccezione della coda, che veniva offerta alle donne in gravidanza per augurare un figlio maschio; le parti più nobili del suino venivano lasciate per la conservazione e diventavano salsicce, soppressate, capocolli, pancetta, lardo e prosciutti.
Largo alla regina: la ‘nduja calabrese
Tra tutti i tipi di carne possibili, la ‘nduja è senza dubbio quella più amata. Il cibo dei poveri che nacque come umile insaccato fatto con gli scarti del maiale è diventato il prodotto che caratterizza la Calabria nel mondo: un singolare salame-non salame, una crema di carne aromatizzata al peperoncino che sta bene con tutto e che si può servire in ogni occasione.
L’origine di questo salume non è chiarissima: alcuni sostengono che sia stata introdotta nel Cinquecento dagli spagnoli insieme al peperoncino, mentre secondo altri arrivò con la dominazione napoleonica quando, tra il 1806 e il 1815, fu introdotto nel Regno di Napoli un insaccato simile che si chiamava andouille. La leggenda narra che Gioacchino Murat abbia fatto distribuire gratuitamente l’andouille per accattivarsi le simpatie dei Lazzari partenopei durante la dominazione francese.
Sebbene le teorie siano diverse, certo è che la ‘nduja nasce storicamente dietro l’esigenza di utilizzare anche le parti meno pregiate del maiale. Soprattutto in passato, infatti, era composta prevalentemente da cotiche e frattaglie. Merito dei calabresi è aver saputo come valorizzarla e renderla degna della cucina gourmet!