Il vescovo di Cassano all’Ionio, Francesco Savino raccoglie parole toccanti nel raccontare la triste vicenda di Cutro, con la tragica morte di tante persone.
Domanderò perdono a Paolo Coelho per aver riutilizzato il titolo di un suo libro per dare voce ai miei pensieri che ancora respirano l’aria di mare, dopo che i miei occhi hanno visto, ancora una volta, l’orrore dell’olocausto moderno. Sulle sponde del mare Ionio, all’indomani dell’ennesima ecatombe marina, ho visto Cristo sedersi sulla battigia e piangere. L’ho visto superstite di quella umanità che si è smarrita nelle traversate asimmetriche del “Mare Mostrum” che non è più “Nostrum”, perché non può appartenerci più un luogo diventato trincea di sopravvivenza, cimitero liquido.
Sono migliaia le persone che hanno perso la vita nel tentativo di raggiungere l’Europa negli ultimi mesi e l’ennesimo naufragio avvenuto sulle coste calabresi, domenica scorsa, ci mostra il vero volto di una umanità negata, simbolo di tutti gli scartati che, in fuga dai propri paesi, sta mostrando il fianco peggiore degli effetti della globalizzazione. Un popolo in cammino che non batte nessuna bandiera, che sogna di abbracciare i colori di un tricolore condiviso, amato, disperato e che trova morte certa partendo da un certo lontano per raggiungere mai, un ipotetico qui. Eppure ci siamo concessi di sognare, come Chiesa e come uomini e donne del mondo, un popolo in cammino, un mondo che fosse crocevia di identità, di culture, di vite, di pelli che fanno all’amore, si mescolano e cambiano colore. Oggi siamo, invece, tutti un po’ Caino, io sono Caino, nella misura in cui non mi sento responsabile di questi nostri fratelli, di queste nostre sorelle, che sono finiti nella morsa delle onde sognando la terraferma. Hanno trovato, invece, una “terraspenta”, spenta nel baratro di politiche europee e nazionali che evaporano diritti nel ping-pong della responsabilità.
A Cutro è andata in scena una tragedia d’amore, come quella di Leandro ed Ero, delle penne di Ovidio e Grammatico, che ci arriva struggente, che si legge solo nei libri, che ci restituisce il dramma di un giovane che per amore sfida i flutti fino a morire annegato dal mare feroce, in tempesta. Così questo “sinodo” di migranti che per amore della vita sfida la sorte, oggi ha trovato la morte a pochi metri da quell’arenile spersonalizzante che rappresenta la terra tanto desiderata.
Quella dei migranti è una storia d’amore, ma è anche una storia di morte, inevitabilmente accettata.
Papa Francesco con quattro verbi ha indicato alcuni percorsi possibili per affrontare il tema della mobilità: accogliere, proteggere, promuovere ed integrare. Accogliere vuol dire raccogliere, ogni uomo, ogni donna, ogni bambino o bambina rimasti impigliati sul fondo di dolore della propria terra; proteggere vuol dire farsi braccia di madre, farsi braccia di padre per quegli occhi sconsolati e stanchi; promuovere significa muoversi a favore della garanzia di una vita migliore; integrare vuol dire rendere sostenibile il distacco dalla propria casa per restituire dignità a chi, una casa, non l’ha mai avuta.
Francesco Savino