Per Paolo Rossi, il mio mito, non l’ho fatto. Per Vialli sì. Un pezzo raro della mia generazione che se ne va, un ponte tra il calcio del passato e quello del futuro. Cremonese di nascita, genovese di gloria, juventino di vittorie, inglese d’adozione. Il marine che diceva “quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare”, frase distante dal mio modo di vedere la vita a vent’anni, ma che ho dovuto far scendere in campo nei momenti difficili della mia esistenza, quando capisci che il tempo, inesorabilmente, non gioca più a tuo favore. Mi piacciono gli uomini che mostrano le loro debolezze anche quando appaiono forti, perché forte o debole non è nessuno. C’è una vita e quella va succhiata sino in fondo, con le vittorie e le sconfitte. Una vita lunga, senza passioni, è una morte eterna. Ho alcune immagini ben fisse nella memoria: Vialli che sbaglia un gol nella finale di Coppa dei Campioni con la Sampdoria, Vialli che alza quella coppa con la Juve, nella finale contro l’Ajax, Vialli che scivola sul prato del Delle Alpi per abbracciare Del Piero, autore di un gol stratosferico con la Fiorentina, Vialli che crossa per la testa di Schillaci nel mondiale del ’90. C’è un’immagine, però, che non potrò mai cancellare dalla mente, l’abbraccio di Vialli con il suo amico/gemello Mancini, nell’europeo vinto dall’Italia. È come un bellissimo e triste quadro di vita da cui è scaturita una mia personale sensazione. Quel pianto dei due terribili ragazzi, in una stretta infinita, è il saluto di Gianluca a Roberto, è l’ultimo passo di un capitolo di una vita passata assieme. È un infinito ringraziamento a chi ha offerto ad un uomo malato la possibilità di sognare ancora e sentirsi vivo per sempre. Un abbraccio eterno che trascende la miserabile e logora materia e regala anche a noi spettatori la speranza che lo spirito esista, come in un film di favole che finiscono bene, anche quando l’orco cattivo decide di ucciderti prima.
Giuseppe Racco