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«Papà, si voliti u mi maritu, datimi nu cantàru di farina e nu cantàru di zuccaru, ca lu zzitu mi lu mpastu ieu»…

«Re Pipi fatto a mano», o di come e fiabe insegnano gentilezza, virtù e coraggio, ma non quelle calabresi: le fiabe calabresi insegnano a essere liberi

Quando si dice “Femminismo” si pensa agli anni ’70, alle gonne corte e al rossetto rosso, alle strade gremite di donne che urlano slogan e sventolano striscioni. Ma di ragazze che pretendono indipendenza ce n’erano anche prima: la storia di una di loro, nata nei pensieri (e forse nei progetti!) delle nonne e delle mamme calabresi, è stata raccontata da Letterio di Francia e da Italo Calvino.

Re Pipi fatto a mano, senza penna e calamaro …

Nella fiaba di Re Pipi la protagonista è una bambina capricciosa, che diventa una ragazza viziata, che diventa… ebbene, diventa una donna indipendente! La donna era, come nella migliore tradizione fiabesca, una principessa, figlia di un re che avrebbe voluto darla in sposa a un principe e farla diventare regina. Ma lei, che di obbedire al papà non aveva voglia e di diventare regina non gliene importava granché, fece al re una strana richiesta:
«Papà, si voliti u mi maritu, datimi nu cantàru di farina e nu cantàru di zuccaru, ca lu zzitu mi lu mpastu ieu». Il Re diede alla figlia lo zucchero e la farina e lei si chiuse dentro la sua stanza per un anno a setacciare e impastare! Impasta e setaccia, modella e scontorna, alla fine dell’anno aveva sfornato un fantoccio talmente brutto che dovette disfarlo e ricominciare daccapo. La seconda volta, invece, venne proprio come voleva lei; per completarlo, gli mise al posto del naso un peperone.

Ma prima che la principessa portasse il suo reuccio fatto a mano al cospetto del
padre, dovettero passare altri sei mesi, durante i quali Re Pipi (così si chiamava il
bambolotto) imparò a parlare. E volete sapere quale fu la prima cosa che disse alla
principessa che l’aveva impastato? Le disse: «Non posso parlare con te, se prima non domando permesso a tuo padre». Che ci volevamo aspettare da uno che è nato già adulto, per di più in Calabria? La principessa corse a chiamare il padre, che conversò un pochino con Re Pipi e finalmente gli concesse la mano della sua figliola.

Le nozze furono un evento! Ma tra gli invitati c’era anche una strega che si faceva
chiamare Turca-Cane e che rimase folgorata da Re Pipi appena lo vide. Comincia qui
una rocambolesca lotta tra le due donne, la principessa e la strega, che si contendevano il reuccio fatto a mano. Il quale reuccio, benché proprio attorno a lui ruoti il fulcro della storia, rimane un personaggio così privo di spessore da fare una fine tanto imprevedibile quanto, in ultima analisi, coerente col suo carattere: se ne vola via con un colpo di vento. A beneficio dell’intreccio, vola proprio nel mantello della Turca-Cane, che lo segue da lontano e che, letteralmente, lo pesca e se lo porta nel suo castello.

A questa terribile notizia, la principessa prova a reagire come si conviene a una fanciulla di nobile famiglia: si chiude in camera sua e si abbandona alla disperazione e all’inedia. Ma si sa, il carattere meridionale ha molta fantasia quando si tratta di reagire a un maltolto, e così la dolce fanciulla salutò il padre, prese quattro spicci, montò a cavallo e partì per cercare la Turca-Cane. Tre eremiti le indicarono la via e le diedero altrettanti oggetti magici che la aiutassero contro la strega. La fiaba ha il suo lieto fine: la Turca-Cane è sconfitta e la principessa riporta a casa Re Pipi.

Se non è femminismo questo …

Non servono slogan né professioni di fede per rendersi conto che la fiaba di Re Pipi è intrisa di femminismo. Sin dall’inizio, la protagonista esercita un diritto che a molte donne viene negato persino oggi: lei sceglie. Di non obbedire al padre, di costruirsi un marito secondo i suoi desideri, di riservarsi un periodo superiore a un anno e mezzo per completare la sua opera. Diritto alla libertà, quindi; diritto alla felicità, inoltre; infine, diritto al tempo.

Ma non si è femministe solo quando si sottolineano i propri diritti: la principessa non sfugge neppure al dovere e, al momento opportuno, parte per affrontare la Turca- Cane e riprendersi il marito, un po’ come hanno fatto tutti i principi delle altre fiabe per salvare le principesse dal drago. D’altra parte lo dice anche il Codice Civile: con il matrimonio, i coniugi acquistano gli stessi diritti e i medesimi doveri.

D’altro canto, invece, c’è l’universo maschile. Il primo rappresentante è il padre della principessa, che accontenta la figlia in tutto: quando le concede il cantàro di farina, quando la sposa secondo il suo desiderio, quando le permette di partire alla ricerca del marito. E poi c’è il Re Pipi: un esserino scialbo e indolente; bello, certo, perché così lo aveva plasmato la principessa, ma superficiale e smorto al punto tale da lasciarsi trasportare dal vento.

Le altre principesse attiviste

Non sono molte le principesse che hanno avuto lo stesso coraggio della nostra protagonista. Letterio di Francia ne cita un’altra soltanto, che per amore del principe accetta di superare una serie di prove; ma al termine del suo viaggio, durante il quale è diventata cieca, zoppa e povera, il principe ingrato, per colpa di un incantesimo, si è dimenticato di lei. Recuperate bellezza, salute e prosperità grazie all’aiuto di una fata, la principessa riesce a riconquistare il principe e quando lui, cotto d’amore, le domanda di sposarlo, lei, soddisfatta, gli risponde di no.

Fiabe, specchio delle brame, c’è una femminista nel reame?

Voi direte: «Sono solo fiabe». Ma io aggiungo: qualcuno deve averle pur raccontate nella forma in cui sono arrivate fino a noi. Non è forse affascinate pensare alla società di nonne, di balie, di mamme che narravano queste storie ai bambini? Non è suggestivo credere che il Femminismo, la cui esplosione ha coinvolto centinaia di migliaia di donne in ogni nazione, sia nato e maturato lentamente, anni e forse decenni prima, nei pensieri di donne che vivevano una vita difficile e avevano il sogno di un riscatto? Non è forse un motivo di speranza confidare che queste donne abbiano cresciuto le loro figlie e le loro nipoti raccontando loro, sia pure con la fiaba di un Reuccio fatto a mano, che le donne non hanno affatto bisogno di essere salvate e che, anzi, sono loro a dare salvezza?
Ditemi pure che esagero, ma riconoscete, vi prego, un’oncia di verità in quello che vi dirò: il Femminismo, signore e signori, è nato in Calabria!

Maria Francesca Frascà

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