La prima volta che lo vidi, era il 1990, aveva con se una sdrucita bandiera italiana, avvolta dalla cintola in su, i capelli cortissimi sulle orecchie, tipo ultimo punk, e lunghi sulla nuca. Tifava esageratamente Italia, pur capendo poco di calcio, seguiva la ola di quell’estate per i mondiali di calcio organizzati e giocati nella patria di Schillaci. Era ospite in un cascinale di campagna di proprietà di un chirurgo ortopedico di Firenze, nativo della locride.
Lo rividi tre anni dopo in una impervia località dell’aspromonte con una trombetta in mano che cercava di stanare cuccioli di cinghiale e subito pensai che il suo carattere somigliava a una canzone incisa sul nastro di una bobina, usata nella Germania est prima della caduta del muro, che avvolgeva velocemente all’indietro e ascoltandola le parole diventavano fonemi di un cartone animato.
Ora, mi dicono, conoscenti comuni, che non beve più tanta birra ma solo pregevole rum cubano che accompagna con un pezzo di cioccolato fondente specie nelle lunghe sere d’inverno quando dal suo balcone vede il lampione sottostante illuminare i binari freddi, resi lucidi dalla pioggerellina, diventare quasi scivolose occasioni di affetti perduti. I treni passano quasi tutti vuoti e il suo cagnolino abbaia al fischio del treno.
Non saltella più come un grillo tarantolato sulle parole sgradite che molte persone gli vomitano addosso, ha imparato con gli anni a stupirsi sempre meno e si meraviglia soltanto del pesce rosso, con striature verde-giallognolo, che conserva in un piccolo acquario, testimonianza di quando più di 20 anni fa è stato l’ittiofilo più ricercato della costa dei gelsomini. Un piccolo pesce sopravvisuto e da primato mondiale di longevità forse, anche, perché è stato nutrito con caccolette prodotte dai vari nasi delle persone che hanno attraversato come leggende tristi la vita del mio amico-folletto.
Ogni tanto vorrei telefonargli da lontano (magari da Foligno) ma non saprei cosa dirgli che lui già non sa. E poi le parole creano imbarazzo più della presenza.
Attualmente fa collezione di musicasette, ne possiede più di 2.986, partecipa ad aste via internet di tutto ciò che concerne musica ma ha anche un recondito desiderio: procurarsi una tuba da cerimonia da abbinare a un vestito stile gangster per il prossimo matrimonio a cui sarà invitato. Dice che fra tre anni trasvolerà in un paese delle antille, affitterà un chiosco di frutta su qualche spiaggia e spanciato guarderà tramonti e albe ripetersi in un tedio sereno.
Fra noi resta però una tacita promessa, ritrovarci, almeno una sola volta, in riva al nostro mare, magari la notte di San Silvestro con i botti e i razzi che raschieranno con i loro colori la superficie increspata del mare.
Un solo rito: brindare al futuro con sottofondo una canzone di Jannacci, colonna sonora per tutte le nostre musiche amate e sentite, ‘’Vengo anch’io, no tu no’’.
Giuseppe Roma