Il racconto di Antonio Calabrò ci ricorda la nostra adolescenza, dove le fontane avevano un ruolo fondamentale.
Uno dei passatempi della mia adolescenza era andare a bere alle numerose fontanelle della città. Seduti in un bizzolo, ogni tanto qualcuno se ne usciva “Andiamo a bere alla fontanella al Pescatori” ad esempio, e, sempre chiacchierando, di musica, di calcio, di donne, di fantasmi, di fumetti, si raggiungeva il posto e ci si riempiva lo stomaco di chiare fresche dolci acque.
Nella nostra zona soltanto c’erano almeno quattro fontane pubbliche, me le ricordo una per una. “A megghiu acqua è chidda o Calopinaci”, diceva uno. No, è meglio quella in via Mercalli, rispondeva l’altro. Per il centro poi c’era l’imbarazzo della scelta. Era molto chic andare a bere al castello. In Via marina ce ne stavano due, orientate verso l’alto, che potevi tappare per qualche secondo ottenendo poi l’effetto geyser (chi della mia generazione non l’ha fatto alzi la mano). In ogni quartiere c’erano fontane. Spesso ci si “procurava” qualche limone e si mangiavano le fette prima di bere. Mi ricordo uno con il coltellino e il sale dietro, sempre; un tipo fuso, assetato di vita.
Ma l’apice, il top dei bevitori di acqua reggini, erano naturalmente Le Tre Fontane, soprattutto di notte, altrimenti dovevi fare la fila. Si partiva dal lungomare e si scalava la città, per bere assetati nelle monumentali bocche che erogavano l’acqua cristallina dell’Aspromonte. Poi uno guardava il panorama da lassù, e diceva “che bella serata”, sazio d’acqua, e di tutto.
Antonio Calabrò