In ricordo del nostro direttore, Pasquino Crupi, a nove anni dalla morte, pubblichiamo questa intervista del giornalista Bruno Gemelli.
Bruno Gemelli fa parte di una particolare categoria della carta stampata ovvero quella degli scrittori-giornalisti. Anzi, al contrario, giornalisti-scrittori. Perché̀ lui si è accostato prima alla scrittura considerata più̀ volatile, quella che D’Annunzio definiva “miserabile fatica quotidiana” e che Montale considerava “secondo mestiere” e poi ha consegnato la sua penna a qualcosa di più̀ duraturo: i libri. Tra le sue ultime fatiche, ricordiamo “Il grande otto” e “Lo strano delitto”, in cui consegna alla storia vicende e personaggi incontrati nella sua lunga carriera di cronista.
Quando ha capito che il giornalismo sarebbe stata la sua strada?
Non c’è stato un momento preciso, una folgorazione, molto banalmente è arrivato. Nella mia prima vita ho fatto un altro mestiere anche se il giornalismo è stato sempre part-time. Una volta nel nostro ambiente si raccontava questa favola: chi non riusciva in politica avrebbe fatto o il sindacalista o il giornalista. Ma io non ho fatto né il politico né il sindacalista. Credo che la spinta fondamentale per fare questo lavoro sia la curiosità̀ che è cosa diversa dal guardare la vita dal buco della serratura.
Ha avuto un maestro a cui si è ispirato?
Non mi sono ispirato a nessun maestro. Ho seguito il filone culturale che appartenne al Partito d’Azione, un partito – meteora della democrazia italiana che diede un contributo decisivo alla nascita della Repubblica. Il partito in cui milita- rono Emilio Lussu, i fratelli Rosselli, Altiero Spinelli, Manlio Rossi Doria, Riccardo Lombardi, Leo Valiani, Francesco De Martino. Questa è stata la cultura che mi ha influenzato e mi ha orientato. Da questo punto di vista mi sono nutrito delle letture che offrivano i giornali storici di riferimento che irradiavano il liberalsocialismo. “Il Mondo” di Mario Pannunzio attraverso la lettura delle ristampe e “L’Espresso” di Arrigo Benedetti. In quest’ultima rivista leggevo Antonio Cederna, il primo che ha parlato in Italia di ecologia, Bruno Zevi, il primo che ha scritto di urbanistica, Umberto Eco, eclettico e poliedrico letterato, Giuseppe Turani che ha spiegato l’economia, Alberto Arbasino maestro di paradossi, Sandro Magister che ha fatto conoscere i segreti del Vaticano, tanto per citarne alcuni. Direttore, ti voglio raccontare un aneddoto: il compianto professor Aldo Guerrieri mi fece leggere le novelle di un professore di Roccella Jonica che insegnava nel Liceo di Locri, Giuseppe Arena, che firmava i suoi pezzi con uno pseudonimo, Lia Bhas (in arabo significa “sabbia”, “rena di mare”). Erano racconti piccanti pubblicati in modo anonimo dal Mondo. C’è stato anche un giornalista locrese, Gianni Cervigni, che fu a lungo collaboratore della rivista pannuziana. Devo aggiungere, per non sfuggire alla tua domanda, che il professor Pasquino Crupi mi ha insegnato i trucchi del mestiere. Se poi tu mi chiedi se in Calabria ci sia stata una “scuola” di giornalismo mi viene in mente “Il Gazzettino del Jonio”, diretto da Titta Foti da Siderno, che era genio e sregolatezza. Io non feci parte di quel cenacolo, anche perchè ero molto più giovane. Aggiungo che in questo vostro comprensorio si elevava la figura di Nicola Zitara, grande meridionalista, che ha scritto un saggio capolavoro, “Memorie di quando ero italiano”, un romanzo popola- re, un affresco del Novecento che, come struttura narrativa, ricorda il film di Bertolucci.
Il suo primo articolo?
Un pezzullo sull’Avanti! l’organo del Partito socialista italia- no. Allora i pezzi caldi venivano tasmessi a mezzo telefono e i pezzi freddi viaggiavano “fuori sacco” a mezzo ferrovia. In tipografia si componeva con la linotype e il proto assemblava il piombo su banconi. I partiti politici per la loro propaganda usavano il ciclostile. Archeologia post Gutemberg.
La decisione più̀ difficile della sua carriera?
Non facendo cronaca nera e giudiziaria le grane erano limita- te. Comunque, nel giornale di Pasquino Crupi, “Calabria oggi”, facemmo un’inchiesta sul neo-fascismo calabrese (unica e sola sino a questo momento) e gli autori, me compre- so, firmavano con pseudonimi femminili. Tranne Crupi, ovviamente.
La soddisfazione più grande?
Le soddisfazioni sono piatte fredde non riconosciute.
Cosa ricorda dei periodi più̀ bui della Locride, ovvero della stagione dei sequestri negli anni ‘70 e, un decennio dopo, delle faide a Siderno e Locri?
Ricordo la stagione dei sequestri, uno al giorno, i farmacisti li presero a tappeto. Ricordo i funerali di ‘Ntoni Macrì con la Cia che filmava la folla dai tetti delle case di Siderno. Allora il giornalismo calabrese fu preso più̀ dalla cronaca, come era giusto che fosse, che dall’analisi. Sembrava di raccontare il western, sceriffi contro banditi, soldati contro indiani. Sherpa al servizio degli inviati. Forse mancò un Leonardo Sciascia.
Verso dove va oggi la Locride, ammesso che stia andando da qualche parte?
Credo che sia ferma, pietrificata. Ma bisogna viverci per avere il polso esatto. Dovrebbe trovare una sua identità° e puntare sulla cultura, investire sull’archeologia. La Villa Romana di Casignana è un esempio; e poi sul turismo termale. Una zona europea ideale per svernare. La Locride deve liberarsi dalla cultura mafiosa e dal vittimismo, anche se lo Stato è stato ed è patrigno e superficiale, ma il garantismo peloso nuoce più̀ degli errori che commettono quasi quotidianamente gli apparati statali.
Cosa può fare un giornalista per questa terra?
Molto, moltissimo. Con tutti i limiti, gli errori, le cadute, il giornalismo ha ancora una funzione nobile e utile nella e per la società.
Maria Giovanna Cogliandro