L’opinione della psicologa Daniela Diano sulla mancanza della figura di uno specialista nel Comitato tecnico per la gestione della pandemia
È stato un errore non inserire la figura professionale dello psicologo nel Comitato Tecnico-Scientifico (CTS) per il superamento dell’emergenza epidemiologica dovuta alla diffusione del Coronavirus istituito dal Capo Dipartimento della Protezione Civile d’intesa con la Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Questo vulnus si registra in maniera incontrovertibile nella crisi sanitaria che sta attivando alti livelli di stress negli individui, nelle équipes di lavoro e a livello sociale e che sarebbe possibile, con le opportune strategie specialistiche, gestire in maniera strutturale e funzionale.
Perché sarebbe stato utile uno psicologo nel CTS
La consulenza dell’esperto di psicologia clinica e di psicologia di comunità in seno al CTS sarebbe preziosa per almeno due ordini di ragioni, che provo ad esporre.
La prima, è che le condizioni eccezionali e straordinarie che contrassegnano la pandemia SARS-Cov2 disarticolano il mondo reale per come lo conosciamo e come ci attendiamo che sia, saltano i nostri schemi legati alla percezione di sé all’interno delle relazioni e alla percezione dell’altro rispetto a sé e dunque, cerchiamo, ciascuno a modo suo, di recuperare il senso di padronanza sul reale. Si tratta di come reagiamo ad un evento abnorme per ritrovare un senso di sicurezza (la sicurezza è alla base della scala gerarchica dei bisogni della nostra specie), qualcuno lo farà in maniera funzionale, qualcun altro in maniera disfunzionale, a seconda della combinazione di una molteplicità di variabili, alcune innate, altre acquisite, che non possiamo esaminare in questa sede, ma che sintetizzo come fattori di rischio e fattori di resilienza. Il pericolo maggiore di sviluppare patologie post traumatiche, tuttavia, viene dal fatto che siamo ancora immersi nell’emergenza e il livello di stress a cui siamo stati acutamente esposti non sta calando, al contrario, in parte resta immutato e in parte si sta trasformando, in quanto iniziamo a dover affrontare scenari diversi, legati non solo a una protezione e cura dell’aspetto più acuto dell’infezione (fase 1), ma anche alla necessità di ripristinare un livello più consueto di vita socio-lavorativa, mentre il virus è ancora in circolo e le informazioni che provengono dal mondo scientifico accreditato, l’OMS, ci dicono che anche chi ha già avuto e superato l’infezione è a rischio di reinfettarsi, per cui cade anche la rassicurazione di sapersi fuori pericolo una volta avuta la malattia. Di conseguenza, siamo ancora ben lontani dal poterci pensare di nuovo al sicuro e protetti, con l’aggravante della fatica da adattamento di questi mesi: adattarsi richiede energie e le energie sono come il conto in banca: a furia di spendere, va in rosso. Ne sono particolarmente investiti gli operatori sanitari in prima linea ed i giovanissimi, nei quali stiamo registrando molti segni di Disturbo dell’Adattamento: insonnia, dolori migranti, somatizzazioni, disregolazione emozionale, depersonalizzazione e derealizzazione, aumento dell’impulsività e dell’aggressività, esordio o aggravamento di patologie quali ipertensione, diabete, problemi autoimmuni, ricorso a sostanze d’abuso.
Stress, resistenza e traumi
In conclusione, prendere in considerazione i fattori di stress, resilienza, adattamento e traumatizzazione e i relativi effetti significherebbe poter localizzare fasce sociali più o meno vulnerabili e utilizzare specifici strumenti di orientamento per la popolazione e per i professionisti della cura, incluso un programma di aumento delle competenze nell’area dello stress e del trauma.
E qui mi collego alla seconda ragione che renderebbe imprescindibile, a mio parere, l’apporto della psicologia nel CTS: il contenimento delle condotte diciamo così, “irresponsabili”. Sempre l’OMS ci dice che le azioni più efficaci per limitare la diffusione del rischio consistono in una sommatoria di misure non farmacologiche ben precise: l’uso delle mascherine, l’igiene delle mani, il distanziamento fisico, la ventilazione negli ambienti al chiuso, il tracciamento dei contatti, l’isolamento dei casi positivi e la quarantena dei contatti stretti. I primi quattro attengono i comportamenti della persona, che sappiamo essere talvolta incoerenti e perfino negazionisti, lo abbiamo visto in diverse occasioni di affollamento, dalla movida alle feste, allo shopping. Ed è proprio sull’incoerenza e sulla negazione, meccanismi propri del sistema difensivo insito nell’essere umano, che il sapere consolidato della psicologia, oggi strettamente collegato alle neuroscienze ed alla ricerca, potrebbe suggerire strategie e strumenti di comunicazione efficace, visto che è di tutta evidenza come non basta dire che una cosa fa male perché la si eviti. Lo sapevamo già dai fumatori, tanto per tirare in ballo una pessima abitudine dura a morire che tutti conosciamo.
Gli analisti che fino a questo momento ho sentito esprimersi, spiegano le notevoli differenze di mortalità e contagio tra il nostro ed altri Paesi facendo riferimento all’incidenza dei comportamenti virtuosi di profilassi, ma quando devono affrontare il tema del perché in queste altre popolazioni la gente è più diligente (io direi coerente e positiva) iniziano a parlare di regimi, totalitarismo, libertà e democrazia, come a dire “il prezzo della democrazia lo si paga inevitabilmente in vite umane”. Questa visione è parziale e fuorviante, oserei dire figlia di una certa “banalità della valutazione”. Perché non considerare, invece, che si potrebbero fare delle buone campagne di dissuasione e di compliance sociale senza dover sventolare spauracchi dittatoriali e senza tenere in ostaggio le menti delle persone attraverso la paura? Come pensiamo di investire davvero in resilienza, come dice il Piano Nazionale, escludendo il contributo della scienza che più di tutte (ingegneria a parte) ha studiato meccanismo e fattori incentivanti della resilienza : la psicologia?
Daniela Diano