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I bambini che unirono l’Italia

Rinaldi, ricercatore infaticabile, già autore dell’ormai introvabile libro I treni della felicità uscito nel 2009 per Ediesse, amplia il suo raggio di azione e ci consegna un libro veramente bello: C’ero anch’io su quel treno – la vera storia dei bambini che unirono l’Italia non è un saggio e non è un romanzo. Contiene tante storie che unite consentono di decifrare fatti non così lontani per essere storicizzati, ma neanche tanto vicini per essere percepiti nella loro importanza.

 La “letteratura della realtà” non si appoggia alla fantasia, ma ai fatti. E Giovanni Rinaldi, specialista del genere, di fatti continua a documentarne a decine. Pugliese di Cerignola, 67 anni, da oltre vent’anni va alla ricerca dei bambini che dal 1945 al 1952 da una qualche stazione del centro Sud povero, affrontarono un lungo viaggio per incontrare la solidarietà dell’“alta Italia”.

Non che al Nord ci fosse chissà quale abbondanza, ma è tutto relativo rapportato a quegli anni durissimi. Se, a Napoli, i bambini dormivano dentro casse che avevano segatura come giaciglio, in Emilia-Romagna un materasso – a volte perfino di lana, più spesso di foglie di pannocchia – lo si trovava. Rinaldi, ricercatore infaticabile, già autore dell’ormai introvabile libro I treni della felicità uscito nel 2009 per Ediesse, amplia il suo raggio di azione e ci consegna un libro veramente bello: C’ero anch’io su quel treno – la vera storia dei bambini che unirono l’Italia non è un saggio e non è un romanzo. Contiene tante storie che unite consentono di decifrare fatti non così lontani per essere storicizzati, ma neanche tanto vicini per essere percepiti nella loro importanza. Fatti, peraltro, tutti politici, perché quei treni furono voluti, organizzati, seguiti dal Pci, dall’Udi, dalla Cgil e contrastati con sleale ruvidezza dalle gerarchie cattoliche. con l’argomento che “I comunisti mangiano i bambini”.

Il lavoro di Rinaldi, che cura anche il blog giorinaldi.com, impedirà l’oblio a tante storie individuali e familiari e lascerà un segno indelebile nella grande storia che corse lungo le disastrate rotaie del paese ferito dalla guerra. Per non parlare degli “effetti collaterali” della sua infaticabile ricerca: da “I treni della felicità” (che aveva una intensa introduzione di Miriam Mafai) prese lo spunto il regista Alessandro Piva per il docu-film Pasta nera, opera a quattro mani con Rinaldi che restituisce con efficacia sullo schermo i viaggi dei bambini e la complessa organizzazione che li rendeva possibili; e poi la recente letteratura di successo su quei treni speciali ha “pescato” a piene mani, per non dire copiato, nelle certosine ricerche di Rinaldi e di altri studiosi senza neanche un “grazie”.

Anche quest’ultimo libro di Rinaldi contiene storie “potenti” che potrebbero, esse stesse, ispirare qualunque romanziere o sceneggiatore.

Colpisce molto, ad esempio, il racconto di Vincenzo Maione di Pozzuoli che, ospitato nel 1947 a nove anni a Sinalunga, si danna una vita per ritrovare la famiglia Bianchi che l’accolse. A Pozzuoli ha una famiglia problematica, un padre che a un certo punto sparisce “sostituito” da un patrigno violento, una madre anaffettiva che di Vincenzo ha bisogno solo per il suo lavoro di ambulante. Vende “pezze”, vecchi vestiti che il bambino va a cercare a Napoli e trasporta a Pozzuoli su una cesta in testa tanto pesante da renderlo calvo. Non si sa come, qualcuno viene a sapere dell’iniziativa del Partito comunista e la mamma gli consente di salire ai primi di febbraio su uno dei tanti treni partiti da Napoli e coordinati da un comitato presieduto da Giorgio Amendola.

La casa che lo ospita è una rivelazione, Vincenzo dorme per la prima volta in un letto, mangia regolarmente, indossa vestiti veri e puliti, riprende la scuola interrotta a Pozzuoli, va in gita con i “genitori comunisti” (un ferroviere e un’operaia non più giovanissimi, con due figli grandi). La nuova vita dura fino all’autunno del 1947 quando riprende, in una scena struggente, il treno per Napoli e ripiomba nella miseria materiale e sociale di sempre. Ma è un ragazzino sveglio, a 16 anni grazie a un prestito a strozzo della zia di 20 mila lire acquista in blocco un magazzino di pezze e si mette a fare l’ambulante, a 18 anni si ritrova con 4 milioni in banca e fa il salto imprenditoriale. Ha successo, apre uno dopo l’altro alcuni negozi di una catena di abbigliamento professionale che ora gestiscono gli eredi.

A 22 anni si sposa e ha dei figli ai quali racconta continuamente la sua storia di bambino aiutato dai comunisti e di quanto vorrebbe ritrovare la famiglia che l’adottò per 8 o 9 mesi. La figlia Laura lo aiuta nella ricerca: anni e anni di tentativi, anche a Chi l’ha visto, ma quella maledetta assonanza la porta non a Sinalunga ma a Siena e il cognome Bianchi, così comune, è un ostacolo. Poi la figlia vede Pasta nera, contatta Rinaldi e gli chiede aiuto. Incrociando le poche informazioni disponibili in 15 giorni il mistero è risolto e la famiglia ritrovata. I “genitori” Maria e Gaetano sono morti ma Vincenzo va lo stesso a Sinalunga: l’incontro con i figli conosciuti settant’anni prima e i nipoti è per tutti un concentrato di emozioni. Vincenzo scopre che Maria scrisse varie volte alla sua vera mamma, le inviò fotografie, chiese informazioni, si offerse di prenderlo in adozione ma non ricevette mai risposta.

Furono decine di migliaia, si stima settantamila ospitati da altrettante famiglie, i bambini privi di tutto che su quei treni andarono incontro ad una accoglienza, spartana ma sempre amorevole, che consentì loro di alleviare le pene nel momento di picco della miseria con la perfetta regia della sinistra che, soprattutto nella sua componente femminile, capì prima di ogni altro che occorreva mobilitarsi per salvare una generazione scampata alle bombe ma le cui famiglie erano rimaste prive di qualunque mezzo di sostentamento. Non pochi di quei bambini vennero adottati dalle famiglie che li ospitarono, altri rimasero sempre in contatto con quel mondo nuovo.

L’ artefice principale fu Teresa Noce, la partigiana Estella, che “impose” con energia al Pci di farsi carico del problema. In un partito allora molto maschile il prendersi cura dei bambini e delle bambine venne interpretato come lavoro da femmine anche se non mancarono esempi di importanti uomini del Pci che si buttarono nell’impresa, dal già citato Amendola al primo sindaco di Modena dopo la Liberazione, Alfeo Corassori (che coniò la definizione “treni della felicità”).

Rinaldi si appassionò ai treni approfondendo la rivolta dei braccianti di San Severo del 23 marzo 1950 quando un brutale intervento della polizia uccise un giovane padre di famiglia, ferì una quarantina di persone e si risolse con 180 arresti, per buona parte padri e madri di bambini che si ritrovarono soli per due anni, prima che il processo assolse tutti i braccianti e li rimise in libertà. Ed è dal Foggiano che partì l’ultimo treno con i figli dei lavoratori arrestati accolti per lo più nelle Marche.

Prima di quell’ultimo viaggio ce ne furono centinaia e centinaia, da Napoli, dalla martoriata Cassino, dal Frusinate dove la popolazione viveva nelle grotte, anche dalla Sardegna. I più attivi nell’accoglienza furono gli emiliano-romagnoli ma Rinaldi ha trovato storie che lo hanno condotto in tanti luoghi del centro nord, da Ancona ad Imperia, alla Toscana. Ha incontrato e continua ad incontrare i protagonisti di quell’epopea in un work in progress che regala sempre nuovi nomi e storie sorprendenti.

 

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