Domenica, 12 giugno, gli Italiani saranno chiamati alle urne per votare su cinque referendum abrogativi in tema di giustizia. I quesiti referendari, promossi da Lega e Radicali, sono stati dichiarati ammissibili dalla Corte costituzionale. Ecco tutto quello che c’è da sapere.
Si parla di abrogazione della Legge Severino D.lgs 235/2012 sulla base della quale chi attualmente è condannato in via definitiva a più di due anni di carcere per reati di allarme sociale, contro la pubblica amministrazione e non colposi per i quali è prevista la reclusione, diventi incandidabile con conseguente decadenza del mandato in caso di condanna definitiva. Se vincesse il SÌ anche i condannati in via definitiva potranno candidarsi e continuare il proprio mandato. Quindi, col referendum si propone di eliminare l’automatica incandidabilità, ineleggibilità e decadenza di parlamentari, membri del Governo, dei Consigli regionali, di sindaci e amministratori locali in caso di condanna penale. A ciò si aggiungerebbe il venir meno della sospensione degli amministratori locali condannati anche in via non definitiva.
L’obiettivo del Decreto era quello di dettare una disciplina organica in materia di incandidabilità, attraverso un’estensione delle cause ostative alla candidabilità. Il testo prevede: l’incandidabilità alle cariche di deputato, senatore, membro del Parlamento UE; l’accertamento d’ufficio della condizione di incandidabilità e conseguente cancellazione dalle liste; le cause ostative allo svolgimento di incarichi di Governo o di Parlamentare con decadenza dal mandato in caso di condanna sopravvenuta; durata dell’incandidabilità che è pari al doppio della durata della pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici; incandidabilità in caso di patteggiamento in un processo penale.
La questione dell’incandidabilità è posta a garanzia del buon andamento della P.A. e del diritto di votare per assicurarsi un assetto politico immune da contaminazioni. L’obiettivo del D.lgs 235 era quello di allontanare dalle cariche elettive soggetti la cui inidoneità sia conclamata da pronunce di giustizia irrevocabili.
Ulteriore quesito riguarda la materia penale ed in particolare la custodia cautelare relativamente all’abrogazione dell’art. 274 comma 1 lettera c) del codice di procedura penale nella parte in cui questo articolo consente di portare in carcere una persona sotto processo se vi è il rischio di reiterazione del reato con altro reato della stessa specie di quello per il quale si procede. Il comma 1 lettera c) afferma che le misure cautelari sono disposte quando “per specifiche modalità e circostanze del fatto e per la personalità della persona indagata o imputata, desunta da comportamenti o atti concreti o da precedenti penali sussiste il concreto e attuale pericolo che questi commetta delitti della stessa specie di quelli per cui si procede. La custodia cautelare “in carcere” attualmente può essere disposta solo in presenza di vari indizi di colpevolezza e deve essere motivata dal pericolo che l’indagato ripeta il reato di cui è accusato o sussista pericolo di fuga o di alterazione delle prove a suo carico. Il SI comporterebbe solo l’abrogazione della motivazione di “possibile reiterazione” quale motivo sulla base del quale i giudici possono disporre la custodia cautelare durante le indagini e quindi prima del processo. L’obiettivo è evitare la detenzione di persone che al termine del processo potrebbero risultare innocenti. Il pericolo di reiterazione del reato è difficile da valutare ed è coperto da varie garanzie per evitare di privare l’indagato o l’imputato della libertà personale solo alla luce del clamore sociale. Occorre quindi, ad oggi, valutare modalità e circostanze del reato, personalità del presunto autore da cui si desuma che possa commettere gravi delitti.
La custodia cautelare come forma di carcere preventivo alla condanna definitiva è una pratica diffusa che è diventata da strumento emergenziale a forma di anticipazione della pena, con conseguente violazione del principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza (articolo 27 c.2 della Costituzione): “L’imputato non è considerato colpevole fino alla condanna definitiva”.
Se il pericolo riguarda delitti della stessa specie di quello per i quali si procede, le misure di custodia cautelare sono disposte solo se si tratta di delitti per i quali è prevista la reclusione non inferiore nel massimo a 4 anni, o, in caso di custodia cautelare in carcere, di delitti per i quali è prevista la reclusione non inferiore nel massimo a 5 anni. Attraverso l’abrogazione di questa disposizione si escluderebbe la possibilità di procedere alla privazione della libertà dovuta a un a valutazione di “possibile reiterazione” del reato disposta talvolta anche dove il rischio non sussiste effettivamente.
Altro quesito riguarda una questione che ci interessa un po’ meno direttamente ed è la riforma del CSM (Consiglio Superiore della Magistratura) che è l’organo deputato a garantire autonomia e indipendenza dall’esecutivo, in particolare autonomia organizzatoria come affermato all’articolo 104 della Costituzione.
Presieduto dal Presidente della Repubblica, il CSM si compone di 27 membri: 3 membri di diritto (Presidente della Repubblica, Procuratore generale presso la Cassazione e Primo presidente di Cassazione) e 24 membri elettivi di cui 16 eletti dai magistrati e 8 eletti dal Parlamento in seduta comune. La funzione è quella di garantire l’autogoverno dei giudici. Un magistrato che intenda candidarsi a far parte del CSM deve, ad oggi, godere del sostegno di un numero di firme compreso tra 25 e 50. Il quesito referendario, se vincesse il SÌ, svincolerebbe il magistrato dall’obbligo di trovare le firme che lo sostengano. La richiesta delle firme si giustifica con l’obiettivo di ottenere il beneplacito delle correnti interne. Con il SÌ, si tornerebbe all’assetto previsto da una legge del 1958, che consentiva a tutti i magistrati in servizio di proporsi come membri del CSM semplicemente presentando la propria candidatura e il risultato sarebbe che a essere preminente sia il magistrato con le sue qualità personali e professionali e non gli interessi delle correnti o del loro orientamento politico. (Le correnti sono attualmente i “partiti” dei magistrati che influenzano le decisioni dell’organo, intervengono nell’assegnazione degli incarichi, decidono trasferimenti e nuove destinazioni). Il quesito riguarda l’articolo 25 della legge 195/1958 che al comma 3 prevede che entro 20 giorni dalla convocazione dei comizi elettorali, per la votazione da parte dei magistrati, devono essere presentate le candidature mediante apposita dichiarazione autenticata dal Presidente del Tribunale nel cui circondario opera il candidato unitamente ad una lista di magistrati che appoggiano il candidato in numero non inferiore a 25 e non superiore a50.
Altro quesito attiene all’equa valutazione dei magistrati fatta dal CSM sulla base di valutazioni dei Consigli giudiziari che sono organismi territoriali nell’ambito dei quali le decisioni sono assunte solo dai componenti della magistratura in un’ottica in cui vi sono sovrapposizioni tra “controllore” e “controllato” che rende le valutazioni poco attendibili. L’obiettivo è che anche i membri laici di tali Consigli, ossia i docenti universitari e avvocati, possano avere voce in capitolo nelle valutazioni. I Consigli giudiziari, infatti, sono composti da magistrati e da membri non togati (avvocati e docenti). La componente laica risulta però estranea alla discussione e alle votazioni per le quali la competenza è riconosciuta ai soli membri togati (i magistrati).
La vittoria del SI servirebbe ad estendere ai membri laici la partecipazione alla valutazione dell’operato dei magistrati.
Il più rilevante quesito, idoneo ad incidere su norme costituzionali, riguarda la separazione delle carriere tra funzione requirente e funzione giudicante. Il SI comporterebbe la rigida separazione volta a garantire terzietà del giudice e trasparenza nei ruoli. Il magistrato sarebbe chiamato a scegliere all’inizio della carriera tra funzione giudicante e funzione requirente mantenendo per tutta la vita professionale il ruolo scelto. Ad oggi, fra PM e giudice non c’è alcuna differenza e i magistrati possono passare da giudicanti a requirenti e viceversa. La contiguità fra i due ruoli contraddice l’idea che la parte che accusa debba restare distinta da quella che giudica. Per quanto attiene alla propensione dei magistrati al cambio di funzioni, il D.lgs 160/2006 precludeva ai magistrati di prima nomina l’assegnazione alla funzione requirente, valorizzando la funzione giudicante come prodromica a quella requirente sotto il profilo della formazione professionale.
La disposizione fu abrogata nel 2011 non per la propedeuticità o meno della funzione giudicante quanto piuttosto per ragioni di carattere pratico. E’ emerso sulla base di dati numerici che i magistrati sarebbero scarsamente propensi ad un cambio di funzioni nell’itinere della carriera.
Il PM è organo che agisce a garanzia degli interessi collettivi, come affermato dalla Corte costituzionale, e ha un ruolo propulsivo essenziale durante le indagini e agisce secondo l’art. 112 della Costituzione a cui si affiancano compiti espressione dello ius dicere. Il PM effettua un giudizio prognostico rispetto al g.i.p. in quanto chiamato a svolgere accertamenti su fatti e circostanze a favore dell’indagato. Nel corso del processo il PM passa dalla funzione accusatoria a garanzia del rispetto della legge a una funzione nomofilattica volta a effettuare un controllo dell’esatta osservanza e interpretazione della legge.
La vera ratio alla base del quesito referendario è che, scardinando la magistratura requirente dall’ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere voluto dalla Costituzione all’articolo 104 sussiste il rischio che il ruolo del PM sia più esposto a possibili condizionamenti da parte del potere esecutivo.
Non è in questa sede che prenderò posizione sul SI o sul NO. I referendum sono talora intrisi di tecnicismi in cui il quesito referendario è, a dir poco, incomprensibile ai molti. Tuttavia, non dobbiamo dimenticare che esso rappresenta la più importante espressione di una democrazia effettivamente partecipativa. Il mio compito è stato quello di cercare di semplificare nella congerie di norme quelle che potrebbero essere le conseguenze di una scelta favorevole all’abrogazione.
Beatrice Macrì