Si è tenuto nella Locride, ad Africo, Moschetta di Locri e Siderno, un formidabile “sabato, domenica e lunedì”, significativamente (per la coincidenza del 25 aprile) intitolato “La Liberazione continua”, organizzato dall’Associazione 22 ottobre, col patrocinio del settimanale La Riviera. Ad Africo, ho scoperto che la sala del consiglio comunale di Africo non esiste più; eliminata dai commissari prefettizi. Credo che proprio questa sia la prospettiva giusta da cui guardare l’abusato istituto delle interdittive antimafia, che da decenni ormai sta sconvolgendo non solamente l’ordine democratico delle regioni meridionali, ma anche l’andamento dell’economia.
Si è tenuto nella Locride, ad Africo, Moschetta di Locri e Siderno, un formidabile “sabato, domenica e lunedì”, significativamente (per la coincidenza del 25 aprile) intitolato “La Liberazione continua”, organizzato dall’Associazione 22 ottobre, col patrocinio del settimanale La Riviera.
Ero a Locri, in un prolungamento della Pasqua, ed ho potuto seguire i lavori di Africo (sì: proprio il paese descritto da Stajano nel 1979); inesorabilmente domenica sono dovuto rientrare a Roma, mancando quindi Moschetta e Siderno.
Dico subito questo per volere tranquillizzare: non mi sto accingendo ad una recensione dell’evento.
Prendo solo spunto dallo stesso per svolgere alcune considerazioni.
Innanzitutto, riferendo ciò che mi era sconosciuto e che, invece, doveva essere indicato al mondo intero come vergogna e sconfitta del sistema democratico italiano: mi riferisco alla scoperta che la sala del consiglio comunale di Africo non esiste più; eliminata, evidentemente inutile, dai commissari prefettizi che, in lunga teoria si sono succeduti ad Africo, sostituendosi ad un organo democraticamente eletto che lo Stato non ha saputo garantire.
Non sto rivoltando il problema. Credo che proprio questa sia la prospettiva giusta da cui guardare l’abusato istituto delle interdittive antimafia, che da decenni ormai sta sconvolgendo non solamente l’ordine democratico delle regioni meridionali soprattutto, ma anche l’andamento dell’economia: perché è lo Stato che deve difendere e garantire le amministrazioni dalle infiltrazioni mafiose.
Non lo si fa con l’interdittiva: sanzione basata non sulla prova, ma sul sospetto; sulla considerazione che una persona fisica o giuridica, per il luogo in cui opera “è più probabile che non”, che possa subire gli influssi mafiosi.
Una sorta di “genocidio” morale che avevo già denunciato parlando lo scorso agosto della mostra “Occhi di donna” di San Luca, chiedendomi per quale maledizione divina una ragazza di quelle terre debba avere, oltre ai problemi comuni a tutte le altre donne, anche quello di non potere iniziare un’attività a causa del luogo natale, del cognome, di una parentela.
L’interdittiva antimafia è la prova della debolezza dello Stato nella dichiarata, ma mai combattuta guerra alla mafia. Perché se la si fosse voluta veramente combattere non ci sarebbe arresi ad essa, come avviene, negando la democrazia con le interdittive. Al contrario uno Stato democraticamente forte, invece di sciogliere l’organo democratico, avrebbe presidiato in maniera salda il territorio offrendo agli amministratori – votati da elettori con la pienezza dei diritti civili e politici – la più ampia sicurezza e, soprattutto, conferendo gli strumenti economici, sociali e culturali per non fare sviluppare il fenomeno mafioso.
Quei territori, i miei territori, non offrono nulla ai giovani, se non la prospettiva della partenza.
O il fascino – che la ‘ndrangheta intercetta con facilità – di essere un adolescente con qualche banconota in tasca e col “timore” che deriva dall’essere pubblicamente “amico degli amici”.
Se poi si attribuisce al mafioso – che, lo ripeto, oggi parla più lingue e non è sprovveduto – il potere di far cadere un sindaco o un’amministrazione o un’impresa, semplicemente facendosi vedere spesso negli stessi luoghi, si attribuisce una forza ulteriore a tutto discapito della comunità.
Si tratta di un potere, questo attribuito alle prefetture, ben più forte di quello dei pubblici ministeri.
Per l’interdittiva non c’è bisogno di prove, ma di un semplice sospetto e della sola valutazione per l’appunto del “più probabile che non”.
I pubblici ministeri devono dare la prova del reato oggetto dell’accusa.
Non sempre ci riescono e, forse, nella consapevolezza di ciò, qualcuno di loro potrebbe essere tentato di utilizzare la possibilità legale di misure “cautelari” lunghe e pesanti, come “pena prima della condanna”. Ed è un’inciviltà che la legge consenta ciò verso un soggetto che, anche se magari costretto al c.d. “carcere duro” è considerato dall’ordinamento “presunto innocente”.
I giudici – grandi assenti della tre giorni locridea, ignoro se perché non invitati o per loro scelta – agiscono all’interno delle previsioni di legge.
Se possono arrestare e tenere in carcere per anni un “presunto” innocente è perché la legge lo consente. Credo sia maturato il tempo di un confronto costruttivo con loro: per armonizzarne l’azione giurisdizionale, con una guerra alla mafia che è ora veramente venga combattuta e vinta e che non può essere affidata a iniziative personali di inquisitori, che magari neppure sfociano in una condanna.
Per questo, nel disastro della “non riforma” Cartabia, ci si deve augurare che la previsione del “fascicolo di valutazione” che dovrebbe consentire progressioni di carriera dei magistrati e attribuzione incarichi direttivi connessi ad un meccanismo di controllo sul “merito” del giudice. Merito che si valuta anche per il PM con la percentuale di condanne ottenute e per un giudicante con le sentenze non riformate nei gradi successivi del giudizio.
L’errore giudiziario del giudice oggi non viene valutato: ciò anche grazie alla forza politica del potere giurisdizionale che nel 2004 riuscì a far deflagrare una norma contenuta nella proposta di riforma di allora, del tutto simile a quella del “fascicolò di valutazione” oggi proposta.
Norma che, forse, nel 2022 potrebbe trovare accoglimento; come, mi auguro, trovino suffragi favorevoli i referendum proposti dai radicali, presenti con Rita Bernardini alla tre giorni locridea.
Tommaso Marvasi