La Ministra Cartabia è riuscita ad imprimere un’accelerazione alla riforma delle riforme, quella della Giustizia. Non è la riforma che la Ministra avrebbe voluto, non è quella che la Giustizia meritava. È un compromesso ai minimi termini, per come hanno permesso i magistrati stessi e per come è sembrato elettoralmente conveniente alle formazioni politiche di governo.
La Ministra Cartabia è riuscita ad imprimere un’accelerazione alla riforma delle riforme, quella della Giustizia, quella più essenziale che riguarda il settore più delicato e nel contempo più compromesso del nostro vivere civile.
Non è la riforma che la Ministra avrebbe voluto, non è quella che la Giustizia meritava.
È un compromesso ai minimi termini, per come hanno permesso i magistrati stessi (che, comunque, annunciano scioperi di protesta) e per come è sembrato elettoralmente conveniente alle formazioni politiche di governo.
L’abilità degli oppositori della riforma, i maestri italianissimi “Del tutto cambi perché tutto rimanga com’è” sono riusciti addirittura a spostare il tema dalla riforma della Giustizia a quella del “governo della Giustizia”: cioè alle modalità di accesso dei magistrati al CSM, ed alle loro incursioni parlamentari: che, secondo la mia sempre opinabile opinione, sono avvenute non in rappresentanza del partito politico che li ospitava, ma come delegazione del “partito delle toghe”.
Quelli della composizione del CSM e delle “porte girevoli” tra magistratura e politica sono certamente temi importanti, da regolare, comportanti delicatissime questioni costituzionali, ma non attengono alla riforma della Giustizia: la cui crisi si manifesta platealmente nel processo.
Nel processo civile, incerto nell’esito e certissimo soltanto nella sua durata dei tre gradi di giudizio, dieci anni per i casi più semplici; l’infinito per gli altri.
Nel processo penale, che è una pena di per sé, ancora più grave quando porta ad assoluzioni (ormai in numero che a me sembra imbarazzante), magari dopo anni di carcerazione preventiva (che dovrebbe essere un’eccezione rarissima) di un presunto innocente.
Così che le condanne per ingiuste detenzioni e per gli indennizzi dovuti in caso di assoluzione determinano un grave danno erariale: l’unico che lo Stato non può ripetere in danno di chi lo ha causato, stante l’irresponsabilità civile dei magistrati: negata da un ignorato referendum abrogativo del 1987; non ammessa tra i quesiti referendari su cui dovremo esprimerci il prossimo giugno, salvo che proprio la riforma non li disinneschi tutti o in parte.
Basterebbe stabilire che l’imputazione, solo in casi eccezionali l’arresto, dovrebbe essere seguita subito dopo dal processo, da iniziare e terminare in tempi strettissimi (in termini di giorni, non di settimane, ma dando il supporto per realizzarlo). Eliminando l’informazione di garanzia, che non garantisce nessuno, ma rende solo ufficiale l’essere sottoposto ad indagini col discredito sociale che da ciò deriva, indipendentemente dalla colpevolezza o meno dell’indagato: che sarà tale per anni.
Processo penale che non cambierà con la riforma, che consentirà pur sempre indagini pluriannuali e processi infiniti e detenzioni preventive di durata lunghissima. Con una presunta innocenza che la parte della magistratura che rappresenta in Italia la pubblica accusa stenta a volere ammettere, come testimonia la sortita dell’altro ieri del PG della Corte di Cassazione, Giovanni Salvi. Il quale, da persona acutissima qual è, rigira il problema, dichiarando che «la comunicazione non va abbandonata alla disponibilità delle parti private, che non hanno obbligo di correttezza nell’informazione» e che le Procure devono comunicare le ragioni delle misure cautelari.
Laddove la scorrettissima parte privata (leggi “avvocato”), in un dibattito mediatico si guarderà bene dal diffamare qualcuno, non avendo alcun paracadute; mentre il p.m. non avrà nessuna remora nell’affermare di avere arrestato il più delinquente tra i delinquenti d’Italia, citando e commentando le ipotesi accusatorie: sicuro di nessuna conseguenza, se quegli dovesse essere assolto.
Neppure sulla carriera.
Considerazione questa che mi consente di dedicare le ultime battute al processo civile.
Perché il processo civile per come è stato riformato nell’ultimo ventennio – con l’abolizione del giudice collegiale nella quasi totalità dei casi, sostituito dal giudice monocratico (nei tempi antichi il Pretore, con competenze per materia e valore limitate), ha esaltato l’autonomia del singolo magistrato, fino a rendere completamente incerto l’esito dei giudizi, non più preventivabili in base a concetti giurisprudenziali, ma legati unicamente al sentire personalissimo del giudice di merito.
Da una parte, per me, stato un ritorno alla giovinezza, ai miei primissimi esercizi forensi, allorché occupandomi di sfratti, potevo stabilire l’esito del giudizio in base al pretore cui era assegnato: il pretore X, sempre favorevole all’inquilino; quello Y sempre più propenso alle ragioni del locatore.
Essere giudicati anche in base alla percentuale di sentenze che non vengono riformate nei gradi successivi del giudizio, non è la fine del mondo. Ma è un modo, perché il diritto sia affidabile e perché il cittadino possa sperare in una soluzione veloce e sicura di una questione di giustizia. Contando anche sul “precedente”: oggi vincolante soltanto in Cassazione dove, per mutarlo, serve un’adunanza delle Sezioni Unite: ma che il giudice di merito può disapplicare tranquillamente.
Perché in conclusione lo Stato di Diritto si basa sul “Giudice a Berlino”: un giudice ideale che applichi la legge, senza pretendere di farla, che giudichi senza preconcetti, in maniera veloce, offrendo anche al più bieco dei criminali, presunto innocente fino alla condanna, tutte le garanzie del diritto e senza mai propendere per una parte, neppure se questa sia lo Stato.
Tommaso Marvasi