A 50 anni e passa dalla loro nascita siamo alla torre di Babele, le Regioni vanno ognuna per la propria parte, lo Stato centrale balbetta e i cittadini non sanno a chi rivolgersi. Le Regioni del Nord che pensano di poter risolvere il problema della crescita da sole e perciò reclamano più poteri. Le Regioni del Sud si trincerano nella difesa di ciò che hanno o, a parole, sfidano sul tema dell’autonomia differenziata, ma sono incapaci di proporre all’attenzione nazionale una credibile iniziativa. In mezzo c’è un’assenza: una classe dirigente con una visione unitaria.
Dopo 52 anni, si può, finalmente, dire io credo con voce unanime ad inizio di questo travagliato 2022: le Regioni sono divenute non l’articolazione dello Stato, ma la sua disarticolazione.
Il governo Renzi aveva tentato di riformare la riforma del 2001, eliminando la confusione e lo squilibrio nel rapporto tra lo Stato e le Regioni e riportando alla competenza dello Stato materie strategiche come le grandi infrastrutture, l’energia e altro. Quella proposta di riforma conteneva la trasformazione del Senato nella Camera delle Regioni, la soluzione indicata da tutti come essenziale per comporre in maniera organica il rapporto tra lo Stato e le Regioni. Ma, come sappiamo, per le resistenze conservatrici, gli errori di Renzi e la volontà di combatterlo dei suoi avversari, quella riforma fu bocciata.
Da lì è partita una controffensiva nordista rivolta ad ottenere un potenziamento dei poteri delle Regioni attraverso la cosiddetta autonomia differenziata, prevista dalla riforma del 2001. Le Regioni Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna chiedono, seppur in maniera diversa, un trasferimento di competenze dello Stato in materie rilevanti. La posizione più radicale e tendenzialmente secessionista è sostenuta dal Veneto. L’obiettivo ottiene un primo risultato con il governo Gentiloni, che avvia una trattativa con le Regioni interessate. L’intesa, dopo le elezioni 2018, col nuovo governo Conte, si incaglia, però si apre una discussione non per iniziativa dei partiti, che dovrebbero avere una visione nazionale, ma per la reazione di alcuni studiosi meridionalisti che mettono in evidenza come con l’autonomia differenziata il divario fra le diverse parti del Paese si amplierebbe invece di restringersi. È stato calcolato che, mantenendo come criterio quello della spesa storica, alle tre Regioni verrebbero erogati circa 200 miliardi in più, con la conseguente diminuzione di pari importo delle risorse destinate al resto delle Regioni. Si seguirebbe l’esempio della sanità, per la quale era previsto dalla legge il criterio del costo standard che non è stato mai definito.
La questione dell’autonomia differenziata apre il problema dell’assetto complessivo dello Stato. In che direzione si vuole andare? Verso l’ulteriore, definitiva disarticolazione dello Stato e un allargamento irreversibile del divario tra Nord e Sud? A questi interrogativi è necessario rispondere non attraverso una particolare trattativa con alcune Regioni, ma con un’assunzione di responsabilità di tutto il Paese e di tutte le sue istituzioni. Le Regioni del Nord affermano che il divario col Sud esiste, ma se si propone l’autonomia differenziata, nei fatti, si pensa che è impossibile assumersi il compito di eliminarlo. Nello stesso tempo è necessario affrontare un argomento cruciale posto dalle Regioni del Nord: per risolvere il problema del divario Nord-Sud – esse dicono – non si può chiedere al Nord di fermarsi.
Il meridionalismo serio non ha mai elaborato e proposto una linea di questo genere. Non si può chiedere alle parti più avanzate del Paese di fermarsi. Il problema è, però, che quella parte del Paese è ferma da ormai 20 anni. Di conseguenza, è tutto il sistema Paese che deve essere ripensato per poter recuperare il ritardo con il resto dell’Europa. Né è convincente la posizione che nel confronto sull’autonomia differenziata hanno assunto complessivamente le Regioni del Sud. La disattenzione avuta rispetto al problema in una prima fase è stata indice della scarsa rilevanza che esse hanno nel rapporto con lo Stato e con le altre Regioni. Sono venute, poi, proteste e da qualche parte una velleitaria volontà di concorrere insieme alle regioni del Nord per ottenere per sé l’autonomia differenziata.
Questa posizione rimanda a un interrogativo cruciale: lo sviluppo del Sud può passare attraverso una sua maggiore autonomia? Ci sono uomini politici, amministratori, studiosi che danno una risposta affermativa. Come conciliare questa valutazione con l’esperienza di governo delle regioni meridionali in questi decenni è poco chiaro, se non in termini di buoni propositi. Se la gestione della sanità, dei trasporti locali, dei rifiuti, per non parlare dei fondi europei in campo economico e sociale, è stata quella che abbiamo sotto gli occhi come si può ragionevolmente pensare che possa accadere il contrario ampliando le competenze ad altri importanti settori?
In conclusione: a 50 anni e passa dalla loro nascita siamo alla torre di Babele, le Regioni vanno ognuna per la propria parte, lo Stato centrale balbetta e i cittadini non sanno a chi rivolgersi. Forse 50 anni fa i nostri amati costituenti avevano altro in mente. Da una parte abbiamo le Regioni del Nord che pensano di poter risolvere il problema della crescita da sole e perciò reclamano più poteri, oggi questi, domani chissà? Come un’Italia più piccola possa competere con gli altri Paesi rimane una domanda senza risposta. Dall’altra, le Regioni del Sud si trincerano nella difesa di ciò che hanno o, a parole, sfidano sul tema dell’autonomia differenziata, ma sono incapaci di proporre all’attenzione nazionale una credibile iniziativa. In mezzo c’è un’assenza: una classe dirigente con una visione unitaria e di governo che non si limiti a mediazioni di corto 115 respiro, ma sia portatrice di una politica che dia una risposta organica alla crisi del Paese. La Babele è per ora la conclusione