Mi ricordo gli anni ’70, quando Reggio Calabria divenne epicentro del disegno eversivo che la destra contrappose alle lotte, alle conquiste ed alle rivendicazioni del movimento operaio italiano.
Quando ripenso alla mia esperienza nel consiglio provinciale, sono molti i ricordi e gli avvenimenti che mi tornano in mente. Innanzitutto quelli degli anni ’70, quando Reggio Calabria divenne epicentro del disegno eversivo che la destra contrappose alle lotte, alle conquiste ed alle rivendicazioni del movimento operaio italiano. Gruppi eversivi, provenienti anche da altri territori nazionali, si inserirono nella protesta popolare che rivendicava il capoluogo e la indirizzarono a sostegno dei loro propositi. La città venne messa a ferro e fuoco con devastazione di strutture pubbliche, incendi delle sedi dei partiti. E fu assaltata con bottiglie molotov anche la questura. Soltanto la federazione del PCI rimase illesa, perché fu difesa dai suoi militanti giorno e notte con massima determinazione. Vennero prese d’assalto le sedi delle istituzioni locali, in particolare nei giorni e nelle ore delle sedute assembleari pubbliche. Ricordo quella del giorno successivo al voto del consiglio regionale (16 febbraio 1971) che elesse Catanzaro capoluogo della regione. Contro quella decisione a Reggio Calabria esplose una rivolta di massa che dilagò nelle piazze, nelle strade principali. Penetrò anche il palazzo della provincia e giunse nella stessa aula consiliare. Quando i consiglieri comunisti vi entrammo per partecipare alla seduta fummo accolti da insulti, minacce e cori di inni fascisti. In quella bolgia restammo da soli per molte ore, perché gli altri gruppi consiliari si presentarono a notte inoltrata, dopo che i manifestanti, evidentemente scocciati di aspettare l’inizio della seduta, abbandonarono il palazzo per unirsi alla protesta più rumorosa che si svolgeva nelle strade e nelle piazze già cosparse di numerosi falò. La seduta si svolse in un’aula vuota di pubblico. Ancora mi domando cosa sarebbe accaduto se quei facinorosi fossero rimasti nel palazzo quando Totò Furfaro, capogruppo comunista, lesse il nostro ordine del giorno che proponeva l’approvazione della decisione del consiglio regionale e chiedeva al governo nazionale di intervenire con decisione e fermezza per sedare la rivolta eversiva. Quell’episodio segnò l’inizio di tanti altri momenti nei quali le tensioni sociali e politiche che l’Italia visse penetrarono quell’assemblea elettiva. La quale, anche se poco incidente sugli avvenimenti e sulle decisioni nazionali, fu certamente un termometro della febbre sociale e politica che attraversava la nostrà comunità. Anche perché tutti i gruppi consiliari erano espressione diretta del voto, dei problemi e delle passioni che agitavano il territorio. La provincia si occupava essenzialmente di una parte delle strade e delle scuole, E si occupava dell’ospedale psichiatrico, che divenne il problema centrale del nostro impegno, perché furono gli anni della riforma Basaglia. Cercammo di sostenere il processo di riforma con tutte le nostre forze, nei modi e nelle forme di cui fummo capaci. Aiutammo i corrispondenti della stampa nazionale, che erano impediti a visitare i manicomi, ad acquisire conoscenza e divulgare informazione delle condizioni disumane in cui erano costretti a vivere i degenti della struttura sanitaria, che erano quasi tutti appartenenti a famiglie poverissime. Spesso venivano ricoverati per disturbi di lieve entità, che quel sistema sanitario, invece di curare, accresceva ed aggravava. In larga parte erano compagni. Lo testimoniava plasticamente l’altarino ornato di bandiere rosse e di falce e martello che avevano eretto nel viale di ingresso dell’ospedale ed il voto politico che in quel seggio segnava sempre la vittoria del PCI. Sento il dovere, infine, di ricordare che spesso, prima di assumere decisioni e comportamenti, ci riunivamo con i compagni che lavoravano dentro l’ente e che fu sempre altissimo il contributo intelligenza, capacità e generosità che da loro ricevemmo. Mi tornano in mente i compagni Pippo Saraceno, funzionario dell’ufficio tecnico, Franco Arilotta, medico, Rossi del manicomio (lo chiamavamo così per distinguerlo da Tommaso che dirigeva il partito) ed altri ancora dei quali, in questo istante, la memoria debole non mi riporta i nomi.
In questi ultimi anni, ho seguito poco l’attività delle assemblee elettive locali calabresi. In mancanza delle informazioni e conoscenze necessarie, su di esse non mi pronuncio. Quel poco che ho appreso mi dice, però, che le riforme introdotte hanno peggiorato notevolmente l’attività delle province, indebolito il rapporto tra i suoi rappresentanti e le popolazioni e privato il territorio di servizi essenziali. Ed hanno anche aggravato la confusione dei ruoli e delle funzioni con la regione. Il mio convincimento è che l’Italia, avendo un territorio lungo, ma non molto vasto, avrebbe bisogno di definire ed istituzionalizzare tra lo Stato ed i comuni una sola figura di ente intermedio che, nelle sue necessarie articolazioni territoriali, sia espressione e rappresentanza della ricchezza delle varietà e specificità storiche, culturali ambientali e geomorfologiche del territorio nazionale. Ed abbia compiti molto chiari e definiti dentro una programmazione politica nazionale finalizzata alla coesione sociale e territoriale del Paese.
Giuseppe Lavorato