È stato riproposto da Rubbettino il romanzo “Emigranti” di Francesco Perri, il dodicesimo volume della collana “La nave dei pini” che si avvale di una puntuale “Prefazione” di Mimmo Gangemi. Viene, così, messa in evidenza un’opera che costituisce la pietra miliare del fenomeno emigratorio del Novecento italiano e rende, altresì, giustizia ad un autore spesso ignorato.
È stato riproposto da Rubbettino il romanzo “Emigranti” di Francesco Perri (Careri, RC 1885 – Pavia 1974): è il dodicesimo volume della collana “La nave dei pini” e si avvale di una puntuale “Prefazione” di Mimmo Gangemi. La Casa Editrice di Soveria Mannelli, nel segnalare un’opera che costituisce pietra miliare, nel corso del Novecento, del fenomeno emigratorio italiano, rende altresì giustizia all’Autore (spesso ignorato) e a questa sua opera non sempre opportunamente ricordata. La conferma di ciò è data da un articolo di Ranieri Polese, apparso sul “Corriere della Sera” del 5/7/2003; si tratta di un “pezzo” su Vita (Rizzoli), il romanzo con cui Melania G. Mazzucco ha vinto il premio Strega: «E ora il romanzo scopre gli emigranti» è il suo titolo. Polese, dopo aver evidenziato che il fenomeno dell’emigrazione italiana nell’Ottocento è stato ricordato in letteratura solo da Edmondo De Amicis (con Sull’Oceano) e da Giovanni Pascoli (col poemetto Italy ), così scrive: «Poi, praticamente più niente; per tutto il Novecento, quel fenomeno sociale rimase assente dalle pagine dei nostri scrittori, come se non fosse avvenuto».
E ben venga quindi questa recentissima edizione di Rubbettino per ricordare che questo mondo dell’emigrazione di massa verso la speranza è stato «cantato» dal calabrese Francesco Perri. “Emigranti”, pubblicato da Mondadori nel 1928, fu un grande successo, numerose furono le traduzioni, la critica fu favorevole. Il testo, da inedito, aveva vinto il concorso Mondadori del 1926, giudicato da una giuria di cui faceva parte Giuseppe Antonio Borgese. E nel corso degli anni si avranno altre edizioni: la Garzanti di Milano lo pubblica nel 1945, la Lerici di Cosenza nel 1976 e Qualecultura di Vibo Valentia nel 2001.
Francesco Flora coglie nel segno, quando, a proposito di Emigranti, così scrive nel V volume della sua Storia della letteratura italiana: «Francesco Perri rispondeva a una di quelle attese segrete e dichiarate, che invocano un certo libro e lo trovano, finalmente, secondo il desiderio e il gusto in cui lo avevano presentito». E Mario La Cava ricorda, nel suo Ritorno di Perri (Qualecultura, 1993), che lo scrittore di Careri «è stato il primo scrittore italiano ad avere affrontato in Emigranti il tema dell’emigrazione».
Nella prima parte, è il racconto del tentativo di occupazione, da parte della gente di Pandore, di terre demaniali usurpate dai “galantuomini” di paesi vicini. Dopo il fallimento dell’impresa e le persistenti difficoltà di sopravvivenza (appesantite anche da una disastrosa alluvione), ai pandurioti non rimane che una via da perseguire: quella dell’emigrazione. Tra gli altri partono per l’America Gèsu e Pietro, che sono due dei quattro figli di Rocco Blèfari; Giusa e Rosa, le femmine, rimangono in paese. La prima ad aspettare Liano, che era partito anche lui dopo aver trascorso con lei, clandestinamente, l’ultima notte paesana. La narrazione del Perri, in questo episodio, assume toni considerevoli nella perfetta analessi che va ad incunearsi nell’intreccio diegetico: il lettore è informato dell’incontro «peccaminoso» Giusa-Liano quando arriva in paese la «mala nova» che Liano era rimasto vittima sotto una miniera di carbone. Rosa, l’altra figlia, accusata ingiustamente di aver tradito il marito, si suicida. Gèsu e Pietro non tardano a ritornare al paese. Il primo, ammalato di sifilide contratta in America, trasmette la malattia alla giovane moglie Mariuzza, con la conseguenza della cecità. Il secondo viene assassinato al Santuario di Polsi da Bruno Ceravolo, marito di Vittoria, che era stata la fidanzata di Pietro. Un esempio di emigrazione meridionale rovinosa, la cui parabola fallimentare assurge a metafora del dolore e della iattura di un popolo. E cadde su Emigranti la stroncatura di Antonio Gramsci, già formulata negli anni Trenta nei “Quaderni del carcere” e poi diffusa ampiamente nel 1948 col volume Letteratura e vita nazionale. Gramsci afferma che «il tratto caratteristico [del romanzo] è la rozzezza: una rozzezza opaca, materiale»; e trascura purtroppo le parti più belle dell’opera, che sono – scrive Mario La Cava su “Calabria oggi” del 24/4/1975 – «la freschezza e vivacità del racconto, la ricerca della verità poetica, il sentimento virgiliano della campagna, i colori meravigliosi della natura». Avrà creato disappunto, in Gramsci, la rappresentazione di quei contadini che, fallito il tentativo di occupazione delle terre, si affrettano, prima di allontanarsi, ad arraffare ortaggi vari, con movenze macchiettistiche. Gramsci non condivideva ciò che era, in Perri, l’atteggiamento dell’intellettuale di buon cuore, borghese, che dimostra di nutrire pietà distaccata verso la classe subalterna; avrebbe preferito una partecipazione umile alle sofferenze dei derelitti, piuttosto che la persistenza nell’accentuazione patetica. Il tutto – per Gramsci – non corrispondeva all’idea marxista della lotta di classe: lo scrittore fallisce il suo scopo quando non sa collocare nella storia il popolo come protagonista della sua stessa evoluzione.
Ma c’è un altro accadimento che condiziona pesantemente la vita e l’attività letteraria di Perri: è la scoperta che lo scrittore calabrese aveva pubblicato, sotto lo pseudonimo di Paolo Albatrelli, il romanzo I conquistatori (Libreria Politica Moderna, Roma, 1925). Tale romanzo registrava la nascita delle squadre d’azione fasciste nella Lomellina (Pavia) del 1919-1921; è stato quindi bruciato nelle piazze di Roma dalle stesse squadre; e provocò inoltre al suo autore il licenziamento in tronco dal suo lavoro di direttore delle Poste e il divieto di scrivere alcunché sugli organi di stampa italiani (divieto mantenuto fino alla fine del fascismo). Tutto ciò ha contribuito a che Emigranti e il suo autore intraprendessero una inesorabile discesa verso l’oblio. Oblio, che ora Rubbettino contribuisce a smantellare.
Giuseppe Italiano