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Calabresi, siamo ancora una vil razza dannata?

Quasi dieci anni fa con gli amici e colleghi Aldo Varano e Filippo Veltri, abbiamo deciso di ripubblicare in ristampa anastatica, alcuni saggi pubblicati nella rivista “Il Ponte”, diretta da Piero Calamandrei, uscita nel 1950 con un numero speciale interamente dedicato alla Calabria che in copertina veniva definita: “La più nobile, ma la meno studiata regione d’Italia”. Scrittori, intellettuali, storici del tempo, quali Alvaro, La Cava, Repaci, Zanotti Bianco e molti altri raccontarono allora la regione come oggi nessuno sembra più in grado di fare. Cioè, al di là dei cliché in cui è caduta e al di là di quelle immagini che i calabresi si sono lasciati costruire addosso: briganti, mafiosi, emigranti, sempre testa dura, indolenti, passivi, abituati a chinare il capo o a compiere i peggiori crimini. Questi saggi raccontano esattamente la Calabria del tempo, affrontando i mali della sua arretratezza, della sua miseria, insieme agli elementi storici, sociali e antropologici più pregnanti, senza nascondere nulla, ma allo stesso tempo sorretti da una speranzosa fiducia nell’avvenire e nelle sue possibilità di riscatto.

Il nostro libro, intitolato “Una vil razza dannata”, uscì nel marzo del 2014 e scaturiva dalla discussione dei due giornalisti e del sottoscritto con un altro grande intellettuale calabrese, il professore Pasquino Crupi, scomparso alcuni mesi prima l’uscita del volume, il 19 agosto del 2013. Instancabile e attento, Crupi credeva nell’utilità delle discussioni, nella potenza del racconto, nell’esigenza di analisi lucide, attente e libere da stereotipi che provassero a raccontare ancora una volta questa terra e questa razza troppo spesso definita “maledetta”. Crupi sapeva parlare di Calabria in maniera onesta, veritiera, priva di condizionamenti ideologici e senza giustificazioni agevoli. Pertanto, la prefazione lucida e amara di Aldo e Filippo si muoveva sul filo di questa riflessione: «La Calabria è da lunghissimo tempo oggetto di una narrazione che la rende incomprensibile. Non si capisce più quale sia l’origine dei suoi problemi e dei suoi drammi, perché continua ad essere sempre in fondo alle classifiche dell’economia, della crescita, del vivere civile e sempre prima nelle classifiche dei primati negativi. Alla fine, in un delirio di distruzioni sistematiche e prive di spiegazioni, sembra restare in piedi una sola ipotesi: c’è una ragione antropologica al nostro essere terra irredimibile; come ci piace ripetere, resta in piedi soltanto la tesi che i calabresi siano una vil razza dannata».

Sono passati più di settanta anni da quella pubblicazione e quasi dieci dalla nostra ristampa e la realtà non sembra essere troppo diversa; anzi direi che sono venuti meno quegli accenni di speranza anche se oggi più di allora si sente il bisogno di parlare, descrivere, riflettere in coscienza e verità. Permane implacabile quel corto circuito di immagini e opinioni da cui non riusciamo a uscire, invischiati come siamo, nel pericoloso gioco di specchi dell’identità. L’identità e la memoria del nostro mirabile passato remoto sono un sarcofago nel quale ci siamo rinchiusi e nel quale abbiamo occultato anche le responsabilità collettive.

Era il 31 marzo del 2014 quando abbiamo presentato il libro a Bova, Pasquino Crupi era morto da sette mesi e ci opprimeva un cupo senso di smarrimento.

Mi è tornata in mente quella giornata leggendo la notizia che Francesco Billari, calabrese di Fossato Jonico, è stato eletto Rettore della Bocconi, una delle più prestigiose università del mondo e ho ricordato ancora che Antonella Polimeni, di origini Locridee, da tre anni è Rettrice della Sapienza di Roma. Non sono gli unici casi di calabresi disseminati nel mondo che occupano ruoli di gran prestigio. Forse è il caso di riprendere la discussione ampliando lo spettro delle basi di riflessione. Una buona occasione potrebbe essere il prossimo 19 agosto quando ricorreranno dieci anni dalla morte di Pasquino Crupi.

rev. Frank

 

 

 

 

 

 

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